reloaded IN PASTO AL CAPITALE di e con Luigi Russi – a PRATO prossimamente

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reloaded IN PASTO AL CAPITALE di e con Luigi Russi – a PRATO prossimamente

 

I

Il sesto capitolo affronta “Il caso del caffè” seguendo le tre fasi chiamate “regimi”, il primo dei quali parte dalla seconda metà dell’Ottocento subito dopo la conquista dell’indipendenza dalla Spagna e dal Portogallo da parte dei Paesi dell’America latina. A parte il resto parlando di “caffè” si tratta di una classica monocoltura poco adatta ai “consumi” necessari alla sopravvivenza ed il monopolio attuato ha finito con il non modificare in basso il prezzo dei semi. Il “secondo regime” si colloca poi alla fine della Seconda Guerra mondiale, mentre il “terzo” è quello che arriva fino ai giorni nostri con la liberalizzazione del mercato ed il conseguente calo vertiginoso del prezzo, che ha reso critica la situazione dei produttori. Molto interessante è peraltro il paragrafo dedicato alle nuove tendenze nel mercato del caffè, soprattutto quando si accenna al “commercio equo e solidale” che tende ad aiutare i produttori a mantenere un prezzo congruo alle loro giuste attese, rispettando allo stesso tempo la sostenibilità ambientale e difendendo la biodiversità. In “Il furto di terre” Luigi Russi analizza la tendenza da parte di investitori stranieri (cioè estranei ai territori oggetto di furto) ad utilizzare soprattutto per monocolture la maggior parte delle terre rese incolte dall’abbandono o volontariamente abbandonate da parte dei contadini che non riescono più a governarle a causa dei magrissimi ricavi. Questo atto provoca danni irreparabili alle economie locali arricchendo a dismisura gli investitori molto spesso protetti da anonimati riconducibili a multinazionali. Viene portato l’esempio della jatropha, una pianta che viene utilizzata per la produzione di biocarburanti; è del tutto evidente che anche questa “pianta” non possa essere utilizzata per il consumo essenziale alla sopravvivenza degli individui che intorno a quel terreno agiscono. Ed è chiaro che grandi spazi di terreno vengono sottratti alle produzioni alimentari, senza che vi siano al contempo i guadagni promessi. Nella parte finale cui oggi non accennerò si prospetta il futuro, partendo già dalle buone pratiche che si vanno svolgendo in molte realtà. Anche DA NOI. E questa è una buona notizia.

Il libro è dotato di un apparato di NOTE straordinario e di un’invidiabile Bibliografia

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reloaded LUIGI RUSSI a PRATO prossimamente con il suo libro “IN PASTO AL CAPITALE”

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reloaded LUIGI RUSSI a PRATO prossimamente con il suo libro “IN PASTO AL CAPITALE”

Un libro intenso e ricco di indicazioni precise e specifiche sulla finanziarizzazione del cibo in atto da qualche decennio in tutto il mondo. Un libro “utile” per la comprensione di una parte delle dinamiche che sovraintendono all’economia globalizzata in questo avvio di XXI secolo.
Se proprio dobbiamo osservare le grandi trasformazioni in atto nella nostra società, questa del comparto “alimentare” ne evidenzia in modo stridente gli aspetti maggiormente paradossali con quelle che dovrebbero naturalmente essere le “missions” della produzione alimentare, e cioè quelle dei soddisfacimenti primari ad uso universale, come poter sfamare tutti consentendo ai più poveri di poter per lo meno accedere al minimo di sussistenza.
In un giorno che precede di poco più di una sola settimana l’avvio di EXPO 2015 (illuminata da luci e colori sgargianti e ricchi ambienti) analizziamone le contraddizioni tra “interessi” dei pochi e “bisogni” dei molti.

reloaded IN PASTO AL CAPITALE di Luigi Russi numero 2 – a breve a Prato

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Nel quarto capitolo Luigi Russi si occupa de “La speculazione sulle materie prime” seguendo il percorso perverso della speculazione in uno dei settori per “natura” “vitale”: questa vitalità è presentata già nel primo capitolo.

“…Le dinamiche che affliggono i mercati delle materie prime agricole dagli anni Duemila in poi mostrano un elevato livello di autoreferenzialità… che è una delle caratteristiche principali del sistema finanziario globale contemporaneo. Le oscillazioni dei prezzi si autoalimentano, indipendentemente dallo stato dei fondamenti economici. Di conseguenza, il cibo diventa solo un’altra attività intrappolata in una rete in cui tutto è investimento e opportunità di ricavare profitto finanziario. Quando queste dinamiche si riversano nel mondo delle variabili economiche «reali», tuttavia, gli effetti sono spesso fortemente destabilizzanti…. Più in generale, la volatilità del mercato delle materie prime agricole ha inviato – di giorno in giorno – segnali sistematicamente sbagliati ai produttori, causando talora la semina di raccolti eccessivi che restano invenduti, talaltra una sotto-coltivazione…. Questa comunque non è la fine della storia. La finanza non solo imbriglia il «cibo» in una rete di attività finanziarie tendenzialmente fungibili a fini di investimento, come esemplificato dalla speculazione diretta sui mercati finanziari. Al contrario, la logica del calcolo finanziario si fa sempre più strada nelle stanze dei bottoni delle multinazionali, diventando una delle leve che si celano dietro l’odierna riconfigurazione della produzione di «alimenti» (se tali possono ancora chiamarsi i frutti delle lavorazioni industriali).”
Nel quinto capitolo, “La riprogettazione del cibo in chiave finanziaria si parte dalla fase della “co-produzione”, che qualcuno potrebbe interpretare come “archeologica e bucolica” anche se in essa vi permane un elemento imprenditoriale di tipo familiare o interfamiliare. Infatti si accenna ad un’interazione continua e…trasformazione reciproca” prevedendo una fase di resistenza ed autonomia o di resilienza del mondo contadino. Luigi Russi analizza il profondo cambiamento intervenuto negli ultimi trenta anni nel “lavoro” contadino che ha decretato la fine di quella particolare figura a noi amica negli anni dell’infanzia (le uova, la frutta di stagione, i polli, il coniglio, etc etc etc). Si passa poi a porre in evidenza ad alcune cause di questo allontanamento, come i Regolamenti CE con norme e prescrizioni così precise da non poter essere tollerate dai limitati guadagni delle famiglie che avessero deciso di rimanere in campagna; così come la necessità di far fronte alle esigenze tecnologiche. In questi ambiti ovviamente le forti multinazionali sono riuscite ad inserirsi portando via la “terra” sia per mantenerla in abbandono sia per poterla coltivare attraverso monocolture. Così come vi si inserisce la “grande distribuzione” anche quella che ha statutariamente (ma, lo si sa, troppe volte gli Statuti sono atti di vera e propria ipocrisia) obiettivi cooperativistici.

…continua….

relaoded “IN PASTO AL CAPITALE” – prossimo incontro a PRATO con l’autore Luigi Russi parte 1

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relaoded “IN PASTO AL CAPITALE” – prossimo incontro a PRATO con l’autore Luigi Russi

“In pasto al capitale – Le mani della finanza sul cibo” di Luigi Russi è una traduzione dall’inglese di Ilaria Mardocco. Il testo originale è “Hungry Capital: “The Financialization of Food” apparso nel 2013 per i tipi di ZerO Books in Inghilterra e di ThreeRiver Publishing in India. Nella “Premessa e ringraziamenti” che segue la Prefazione di Andrea Baranes e precede la vera e propria Introduzione Luigi Russi coglie l’occasione per analizzare la genesi di questa ricerca riandando alla Fondazione “Nuto Revelli” ed al “Festival del ritorno ai luoghi abbandonati” alla quale, dice Luigi Russi, “devo la nascita del mio interesse per l’economia contadina”. E’ infatti da quella che prende le mosse l’analisi del saggio; si parte dal “capitalismo” come “sistema”, da un’analisi dello stesso termine “capitale” come “sineddoche, figura retorica per cui una parte viene utilizzata per indicare il tutto.” Luigi Russi si addentra nei meandri del capitalismo e della finanza ed in particolare analizza “il filo del rapporto tra capitale e cibo” fino al processo di finanziarizzazione che consiste nell’intervento da parte doi interessi economico-finanziari multinazionali su quel tessuto diversificato di forme di relazionalità dal basso allo scopo di assoggettarlo, dirigerlo, governarlo, prtarlo a reddito a vantaggio di poche difficilmente identificabili realtà. L’autore accosta il sistema finanziario al Leviatano di Hobbes, simbolo dello stato accentratore unidirezionale ed irreversibile. La figura del Leviatano è l’unica immagine che accompagna lo scritto ed il riferimento ad essa è frequente. Andando avanti Russi tratta dei “regimi alimentari”: il primo di essi va dalla fine del XIX secolo alla Grande Guerra e contiene “una tendenza a ristrutturare la co-produzione contadina” con “l’introduzione di tecniche industriali contribuisce a riorganizzare l’agricoltura….al fine di produrre i generi alimentari di base per i lavoratori…”; il secondo, che scollina la seconda guerra mondiale, porterà ad “un’industrializzazione onnicomprensiva dell’agricoltura, allo scopo di massimizzare la produzione di cibo”, utilizzando “un misto di input industriali, varietà ibride di semi, monocolture e irrigazione”. Il terzo regime arriva fino a noi e si caratterizza per “il peso crescente del capitale finanziario”; “lo sviluppo delle multinazionali”; quello “delle biotecnologie” e la “crescente diversificazione nella scelta del consumatore, ottenuta dalla grande distribuzione….”.
Mentre leggevo le pagine di Russi, mi fermavo e riflettevo, ricordando anche la mia infanzia nell’isola di Procida e la vita contadina degli anni Cinquanta con quei rapporti sereni, forse un po’ idealizzati dalla lontananza e dalla freschezza degli anni. Nel libro quell’epoca è lontana, ormai apparentemente irraggiungibile: è un tempo nel quale l’economia contadina era quella di base…ed allora mi sono ritornate in mente le parole di un grande, forse il più grande dei “poeti” del Novecento: Pier Paolo Pasolini.

Pasolini

“Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata: non dico i suoi valori — che sono una parola troppo alta e ideologica per quello che voglio semplicemente dire — ma le apparenze parevano dotate del dono dell’eternità: si poteva appassionatamente credere nella rivolta o nella rivoluzione, che tanto quella meravigliosa cosa che era la forma della vita, non sarebbe cambiata. Ci si poteva sentire eroi del mutamento e della novità, perché a dare coraggio e forza era la certezza che le città e gli uomini, nel loro aspetto profondo e bello, non sarebbero mai mutati: sarebbero giustamente migliorate soltanto le loro condizioni economiche e culturali, che non sono niente rispetto alla verità preesistente che regola meravigliosamente immutabile i gesti, gli sguardi, gli atteggiamenti del corpo di un uomo o di un ragazzo. Le città finivano con grandi viali, circondati da case, villette o palazzoni popolari dai «cari terribili colori» nella campagna folta: subito dopo i capolinea dei tram o degli autobus cominciavano le distese di grano, i canali con le file dei pioppi o dei sambuchi, o le inutili meravigliose macchie di gaggie e more. I paesi avevano ancora la loro forma intatta, o sui pianori verdi, o sui cucuzzoli delle antiche colline, o di qua e di là dei piccoli fiumi.
La gente indossava vestiti rozzi e poveri (non importava che i calzoni fossero rattoppati, bastava che fossero puliti e stirati); i ragazzi erano tenuti in disparte dagli adulti, che provavano davanti a loro quasi un senso di vergogna per la loro svergognata virilità nascente, benché così piena di pudore e di dignità, con quei casti calzoni dalle saccocce profonde; e i ragazzi, obbedendo alla tacita regola che li voleva ignorati, tacevano in disparte, ma nel loro silenzio c’era una intensità e una umile volontà di vita (altro non volevano che prendere il posto dei loro padri, con pazienza), un tale splendore di occhi, una tale purezza in tutto il loro essere, una tale grazia nella loro sensualità, che finivano col costituire un mondo dentro il mondo, per chi sapesse vederlo. È vero che le donne erano ingiustamente tenute in disparte dalla vita, e non solo da giovinette. Ma erano tenute in disparte, ingiustamente, anche loro, come i ragazzi e i poveri. Era la loro grazia e la loro umile volontà di attenersi a un ideale antico e giusto, che le faceva rientrare nel mondo, da protagoniste. Perché cosa aspettavano, quei ragazzi un po’ rozzi, ma retti e gentili, se non il momento di amare una donna? La loro attesa era lunga quanto l’adolescenza — malgrado qualche eccezione ch’era una meravigliosa colpa — ma essi sapevano aspettare con virile pazienza: e quando il loro momento veniva, essi erano maturi, e divenivano giovani amanti o sposi con tutta la luminosa forza di una lunga castità, riempita dalle fedeli amicizie coi loro compagni.
Per quelle città dalla forma intatta e dai confini precisi con la campagna, vagavano in gruppi, a piedi, oppure in tram: non li aspettava niente, ed essi erano disponibili, e resi da questo puri. La naturale sensualità, che restava miracolosamente sana malgrado la repressione, faceva sì che essi fossero semplicemente pronti a ogni avventura, senza perdere neanche un poco della loro rettitudine e della loro innocenza.
Anche i ladri e i delinquenti avevano una qualità meravigliosa: non erano mai volgari. Erano come presi da una loro ispirazione a violare le leggi, e accettavano il loro destino di banditi, sapendo, con leggerezza o con antico sentimento di colpa, di essere in torto contro una società di cui essi conoscevano direttamente solo il bene, l’onestà dei padri e delle madri: il potere, col suo male, che li avrebbe giustificati, era così codificato e remoto che non aveva reale peso nella loro vita.
Ora che tutto è laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa — e i ragazzi brutti, pallidi, nevrotici, hanno rotto l’isolamento cui li condannava la gelosia dei padri, irrompendo stupidi, presuntuosi e ghignanti nel mondo di cui si sono impadroniti, e costringendo gli adulti al silenzio o all’adulazione — è nato uno scandaloso rimpianto; quello per l’Italia fascista o distrutta dalla guerra. I delinquenti al potere — sia a Roma che nei municipi della grande provincia campestre — non facevano parte della vita: il passato che determinava la vita (e che non era certo il loro idiota passato archeologico) in essi non determinava che la loro fatale figura di criminali destinati a detenere il potere nei paesi antichi e poveri.”