Tempo di coronavirus: riflettere e far riflettere

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Tempo di coronavirus: riflettere e far riflettere

Uno degli aspetti “positivi” in questo tempo sospeso è di certo collegabile al fatto che, quando ci si incrocia, pur bardati da mascherine e con capigliature leonine che ormai coprono anche le “pelate”, ci si riconosce e ci si saluta con entusiasmo: a volte capita anche che ci si ritrovi con affabilità a discutere con persone alle quali non avevamo dato confidenza e dalle quali non avevamo avuto segni simili in precedenza. La parziale solitudine è stata interrotta da saluti cordiali tra dirimpettai con i quali abbiamo anche condiviso momenti irripetibili ed inimmaginabili prima d’ora, condividendo canti e applausi. In queste giornate abbiamo imparato che non siamo proprio del tutto soli ed ognuno ha cominciato ad aprirsi agli altri nella comprensione delle diverse problematiche. esplicitate o immaginate, ma in ogni caso reali. In primo luogo la solitudine dei nuclei così come si sono caratterizzati quando il lockdown è partito ha evidenziato aspetti non prevedibili, come la necessità di avere spazi vitali quotidiani in ambienti non abbastanza ampi per poter sviluppare una pur normale attività, non solo quelle di tipo organizzativo ma soprattutto quelle che all’improvviso sono diventate urgenti come l’ homeworking (per gli adulti che hanno avuto la fortuna di poter continuare la loro attività lavorativa) e le “lezioni online” (per gli studenti di ogni età che hanno dovuto continuare il loro impegno scolastico lontano dalle aule). Nell’avviare queste nuove modalità “urgenti” si è scoperta l’inadeguatezza dei mezzi a disposizione, dalla mancanza proprio di strumenti di base, come personal computer, smartphone o tablet, ma anche di connessioni all’altezza di reggere utilizzi multipli in contemporanea. Un altro degli aspetti da mettere sotto osservazione è la capacità di ciascun nucleo di tenere sotto controllo la propria spesa alimentare, i propri consumi essenziali, in assenza di spese voluttuarie collegate ad una vita anche – ed in alcuni casi preponderante – fuori casa: sono aumentate di certo le spese per le utenze ma sono diminuite quelle per carburanti e per la vita sociale. Indubbiamente ci sono state molte categorie di lavoratori che hanno dovuto far fronte in modo duro all’assenza di un reddito. Questo aspetto deve essere elemento sul quale riflettere e far riflettere.
Una parte di questi lavoratori aveva contratti “capestro” con falsi “part-time” (ed erano forse tra quelli parzialmente “fortunatI”); un’altra parte, pur lavorando, “non” aveva contratti e forse era riuscito ad ottenere sussidi come il RdC, forse lo aveva ottenuto solo parzialmente e forse nemmeno quello; un’altra parte di lavoratori sono quelli atipici, autonomi, la cui fortuna dipende anche dalla vita sociale condotta per essere conosciuti negli ambienti (per costoro lo Stato, cioè tutti coloro che poi hanno contribuito e contribuiranno a pagare le tasse, sta provvedendo per dei “bonus” che però tardano ad arrivare a destinazione).
Riflettere e far riflettere: chi aveva contratti capestro d’ora in poi, dopo questa esperienza, denunci questa realtà piuttosto che subirla passivamente “perché altrimenti non ci danno nemmeno questa occasione”; chi lavorava senza contratto faccia lo stesso affinché non vi siano altre storture simili verso i loro figli e nipoti, oltre che verso di loro, dopo questa, che potrebbe essere un’ottima positiva esperienza; quegli altri, ma non solo quegli altri, imparino da questa situazione a gestire meglio la loro esistenza: non si può pensare che a pagare poi sia la collettività.
Se dobbiamo creare un mondo più giusto dobbiamo anche imparare a guardarci intorno e non fidarci di chi “piange miseria” per professione: ne trovereste un po’ di gente che dichiara redditi da fame e possiede seconde e terze case, a volte anche, di lusso.
Dobbiamo imparare a cooperare, perché abbiamo, in “tanti”, interessi comuni, mentre pochi ci fregano elegantemente. E allora? Se dobbiamo imparare qualcosa, non ce la facciamo sfuggire questa occasione di “giustizia sociale”: a coloro che in clima di solidarietà si dichiarano disponibili a versare una quota – pur minima – del loro reddito fisso (da lavoro o da pensione, medio-basso, non di certo minimo) suggerisco prudenza e condivisione dei problemi di “equità” per elaborare una serie di interventi utili a far emergere il “nero”, l’elusione e l’evasione, dappertutto. Altro che obolo generoso! Il motivo per cui non ho esultato davanti a quell’apparente modalità di contribuzione “sociale” ma l’ho contrastata ed il motivo era – ed è – che in questa forma nulla cambia. E, ve lo assicuro, la mia non è ipocrisia.

Joshua Madalon

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