23 agosto – CINEMA – Storia minima (1943) – 23 –

Dopo aver reso omaggio ad Alessandro Blasetti, riconoscendogli un ruolo nella genesi del Neorealismo, possiamo addentrarci in quel percorso, in quel tempo che è da tutti riconosciuto come una consacrazione a livelli internazionali  del Cinema italiano. Altri esempi anticipatori vi erano stati e tra questi ci sono da menzionare lo stesso Blasetti che nel 1934 aveva realizzato con accuratezza storica una celebrazione degli eventi risorgimentali con “1860” e Francesco De Robertis con il suo “Uomini sul fondo” del 1941. Nel 1943 due opere cinematografiche aprono tuttavia le porte a quello che sarà il Neorealismo cinematografico: quello letterario era già iniziato negli Anni Trenta anche se si svilupperà in piena libertà subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Il film che ha ricevuto il riconoscimento ufficiale per aver aperto la stagione del Neorealismo è “Ossessione”.

Basato molto liberamente sulla trama di un romanzo (“Il postino suona sempre due volte” di James M. Cain)  già preso in considerazione alla fine degli Anni Trenta da Pierre Chenal per il suo “Le dernier tournant”, Luchino Visconti che aveva praticato la cinematografia francese nella sua fase di apprendistato con Jean Renoir, realizza al suo esordio da regista uno dei suoi capolavori, forse in assoluto il migliore tra essi, attualizzandone la vicenda ed inserendola in un contesto italiano contemporaneo. Per comprendere l’importanza di questo film basterebbe scorrere l’elenco degli sceneggiatori che comprendono oltre allo stesso Visconti, Mario Alicata,  Giuseppe De Santis, Gianni Puccini, Alberto Moravia, Antonio Pietrangeli che opereranno attivamente nella storia culturale, politica e artistica del nostro Paese nel corso del secondo dopoguerra. Non si può tuttavia non ricordare l’altro film neorealista del 1943 (avevo anticipato infatti che “due” erano stati in quell’anno i segnali identificatori del Neorealismo): “I bambini ci guardano” di Vittorio De Sica.

Altro esordio eccellente del 1943 è quello del giapponese Akira Kurosawa, che tuttavia venne alla ribalta internazionale solo nel 1951, dopo aver vinto il Leone d’Oro per “Rashomon”. “Sanshiro Sugata” è un film fortemente collegato alla tradizione giapponese: tratto da un romanzo appena pubblicato di Tsuneo Tomita, anch’egli all’esordio, ed ispirato ad un vero judoka, Musaki Miyamoto, fu un grande successo sia critico che di pubblico.

Ritornando in Europa, va segnalato uno dei capolavori assoluti della cinematografia danese, “Dies Irae” di Carl Theodor Dreyer. Girato mentre il paese è occupato dai nazisti, è tratto da un’opera teatrale e narra una storia del XVII secolo, allorquando alcune donne venivano accusate di stregoneria. Lo stesso titolo è riferito al canto che veniva intonato mentre le streghe erano condotte al rogo. “Dies Irae” apre una stagione innovativa per il cinema di Dreyer che sceglierà testi teatrali da trasportare sullo schermo cinematografico senza incorrere in quella forma di “teatro filmato” e dunque senza abbandonare il suo peculiare stile che lo aveva reso celebre sin dai tempi del cinema “muto”.

Di tutt’altra atmosfera è il cinema di Ernst Lubitsch, di cui abbiamo trattato già nel precedente blocco 22. Dopo il successo di “Vogliamo vivere!” egli gira un film altrettanto leggero ed ironico, “Il cielo può attendere” che racconta, attraverso un escamotage, l’intera vita di un impenitente dongiovanni. Tratto da una commedia teatrale, la storia ha inizio con la morte del protagonista che si ritrova all’Inferno a dover rendere conto di tutte le sue azioni nelle diverse fasi della sua esistenza. Al termine dell’esame, viene poi destinato ad un periodo di Purgatorio e seguirà per questo una bella signora, felice dunque di poter far “attendere” con quella compagnia, per l’appunto “il Cielo”, ovvero “il Paradiso”.

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