28 Agosto – INFER(N)I – altri Inferni – non solo Dante – “Metamorfosi” di Ovidio Libro X – Orfeo ed Euridice – 4

Proseguendo in una ricognizione di alcuni “viaggi” immaginati dai nostri predecessori non dovrebbe mancare il riferimento ad uno dei “miti” narrati in diverse stagioni – qui sotto ritroviamo uno dei più celebri, quello che Publio Ovidio Nasone inserisce nel Libro X delle “Metamorfosi” – Ne riporto una parte (vv. 1-77): ignoro chi sia l’autore della traduzione https://www.miti3000.it/mito/biblio/ovidio/metamorfosi/decimo.htm . Orfeo, mitico leggendario cantore, decide di andare negli Inferi a richiedere di poter riportare in vita la sua amata Euridice, ancora nel fiore della giovinezza, uccisa dal veleno di un serpente. Davanti a Persefone e Plutone egli racconta gli eventi e, commuovendo tutti i presenti, riesce ad ottenere di poter riportare con sé Euridice, a patto che egli non le volga lo sguardo prima di essere ritornato fuori dalle tenebre. Per il grande amore che porta alla donna, mentre la tiene con mano nel risalire i sentieri che li riportano fuori dagli Inferi cede alla passione ed al grande desiderio e gira verso di lei lo sguardo, segnando definitivamente il triste destino della donna e della loro vita in comune.

Di lì, avvolto nel suo mantello dorato, se ne andò Imeneo
per l’etere infinito, dirigendosi verso la terra
dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano.
Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito,
senza letizia in volto, senza presagi propizi.
Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo,
provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme.
Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa,
mentre tra i prati vagava in compagnia d’uno stuolo
di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente.
A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta
del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti,
non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:
tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse
alla presenza di Persefone e del signore che regge
lo squallido regno dei morti. Intonando al canto le corde
della lira, così disse: «O dei, che vivete nel mondo degl’Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.
Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell’antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi,
per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,
vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!
Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o tardi tutti precipitiamo in quest’unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l’ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.
Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:
io non me ne andrò: della morte d’entrambi godrete!».
Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira,
le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d’afferrare
l’acqua che gli sfuggiva, la ruota d’Issìone s’arrestò stupita,
gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l’urna
le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno.
Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta
si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l’ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell’Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
In un silenzio di tomba s’inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
l’innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell’Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d’afferrarlo ed essere afferrata,
ma null’altro strinse, ahimè, che l’aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d’essere amata?);
per l’ultima volta gli disse ‘addio’, un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell’abisso dal quale saliva.
Rimase impietrito Orfeo per la doppia morte della moglie,
così come colui che fu terrorizzato nel vedere Cerbero
con la testa di mezzo incatenata, e il cui terrore non cessò
finché dall’avita natura il suo corpo non fu mutato in pietra;
o come Oleno che si addossò la colpa e volle
passare per reo; o te, sventurata Letea, troppo innamorata
della tua bellezza: cuori indivisi un tempo nell’amore,
ora soltanto rocce che si ergono tra i ruscelli dell’Ida.
Invano Orfeo scongiurò Caronte di traghettarlo un’altra volta:
il nocchiero lo scacciò. Per sette giorni rimase lì
accasciato sulla riva, senza toccare alcun dono di Cerere:
dolore, angoscia e lacrime furono il suo unico cibo.
Poi, dopo aver maledetto la crudeltà dei numi dell’Averno,
si ritirò sull’alto Ròdope e sull’Emo battuto dai venti.