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IL VORTICE DELLA VITA – ricordando François Truffaut – Jeanne Moreau

Un omaggio a François Truffaut – Il film è “Jules et Jim” tratto dall’omonimo romanzo di Henri-Pierre Roché ed a Jeanne Moreau.
Il primo video è tratto direttamente dal film, il secondo è riferito alla interpretazione di Vanessa Paradis e Jeanne Moreau a Cannes nel 1995.

Le parole sono di Cyrus Bassiak (pseudonimo di Serge Rezvani, scrittore, pittore francese, nato a Teheran nel 1928), la musica di Georges Delerue.

Le tourbillon de la vie

Elle avait des bagues à chaque doigt,
Des tas de bracelets autour des poignets,
Et puis elle chantait avec une voix
Qui, sitôt, m’enjôla.
Elle avait des yeux, des yeux d’opale,
Qui me fascinaient, qui me fascinaient.
Y avait l’ovale de son visage pâle
De femme fatale qui m’fut fatale {2x}
On s’est connus, on s’est reconnus,
On s’est perdus de vue, on s’est r’perdus d’vue
On s’est retrouvés, on s’est réchauffés,
Puis on s’est séparés.
Chacun pour soi est reparti.
Dans l’tourbillon de la vie
Je l’ai revue un soir, hàie, hàie, hàie
Ça fait déjà un fameux bail {2x}.
Au son des banjos je l’ai reconnue.
Ce curieux sourire qui m’avait tant plu.
Sa voix si fatale, son beau visage pâle
M’émurent plus que jamais.
Je me suis soûlé en l’écoutant.
L’alcool fait oublier le temps.
Je me suis réveillé en sentant
Des baisers sur mon front brûlant {2x}.
On s’est connus, on s’est reconnus.
On s’est perdus de vue, on s’est r’perdus de vue
On s’est retrouvés, on s’est séparés.
Dans le tourbillon de la vie.
On a continué à toumer
Tous les deux enlacés
Tous les deux enlacés.
Puis on s’est réchauffés.
Chacun pour soi est reparti.
Dans l’tourbillon de la vie.
Je l’ai revue un soir ah là là
trallallla
Elle est retombée dans mes bras
Quand on s’est connus,
Quand on s’est reconnus,
Pourquoi se perdre de vue,
Se reperdre de vue?
Quand on s’est retrouvés,
Quand on s’est réchauffés,
Pourquoi se séparer ?
Alors tous deux on est repartis
Dans le tourbillon de la vie
On à continué à tourner
Tous les deux enlacés
Tous les deux enlacés.

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Traduzione in italiano

Il turbinio dell’esistenza

Portava un anello per ciascun dito
una montagna di braccialetti ai polsi
e poi cantava con una certa voce
che pure mi acchiappava

Aveva certi occhi certi occhi d’opale
che mi affascinavano, o se mi affascinavano
e poi c’era l’ovale di quel pallido viso
di donna fatale che fatale mi fu.

Ci siamo conosciuti e riconosciuti
ci siamo persi di vista, ci siamo ripersi di vista
e ci siamo ritrovati e poi riattizzati
e poi ci siamo separati

Ciascuno è ripartito per fatti suoi
nel vortice della vita
e poi l’ho rivista una volta di sera trallallalla
e’ un ballo famoso

Al suono del banjo l’ho riconosciuta
quel curioso sorriso m’aveva invaghito
la voce fatale sul viso bello e pallido
mi emozionarono più che ma

Mi sono stordito mentre l’ascoltavo
l’alcool fa dimenticare
mi sono svegliato e sentivo
dei baci sulla mia fronte ardente

Ci siamo conosciuti e riconosciuti
ci siamo persi di vista, ci siamo ripersi di vista
e ci siamo ritrovati e poi riattizzati
e poi ci siamo separati

E abbiamo continuato a girare
allacciati insieme
allacciati insieme
ci siamo riattizzati

Ciascuno è ripartito per fatti suoi
nel vortice della vita
E poi l’ho rivista una sera
trallallla
e mi è ricaduta tra le braccia

Quando ci siamo conosciuti
quando ci siamo riconosciuti
perché perdersi di vista,
perdersi ancora di vista?

Quando ci siamo ritrovati
quando ci siamo riacchiappati
perché separarsi?

Allora tutti e due siamo ripartiti
nel vortice della vita
E abbiamo continuato a girare
allacciati insieme
allacciati insieme

The whirl of life
traduzione di Vanessa Paradis

She had rings on every finger
Tons of bracelets around her wrists
And then she used to sing with a voice
That, immediately, seduced me.

She had eyes, eyes like opal
That fascinated me, that facinated me
The oval of her pale face
Of a femme fatale who was fatal to me

We met, we recognized each other,
We lost sight of each other, we lost sight again
We met again, we heated up each other,
Then we separated

Each one is gone
In the whirl of life
I’ve seen her one day at night, ouch, ouch, ouch,
It’s been a long time now ( x 2)

To the sound of banjos I recognized her.
This strange smile that was so appealing to me.
Her voice so irresistible, her beautifull pale face
Moved me more than ever.

a cura di J.M.

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IL DOMINO LETTERARIO riparte da dove era cominciato

IL DOMINO LETTERARIO riparte da dove era cominciato

Nei prossimi giorni lo annunceremo ufficialmente – Il Domino letterario era partito il 27 marzo di tre anni fa con questo libro di Manuele Marigolli – riprenderà nella seconda metà del mese di aprile 2018 con Manuele Marigolli, autore del libro di racconti dedicati alla caccia, di cui Manuele è profondo cultore. Questo post è solo un annuncio. A breve uscirà un mio commento al libro.

Marigolli

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Libero “era cresciuto fra l’Arno e la strada, lì aveva imparato a valutare avversari e pericoli, ad adottare comportamenti e strategie conseguenti, pesare le forze in campo. Capire anche quando era il caso di voltarsi e andare, prima che l’andare fosse una fuga. Mantenere intatto il proprio prestigio, perché sarebbe stato utile una prossima volta….Non era e non diventò mai un competitivo, ma se era costretto a competere allora voleva essere quello che rimaneva in piedi. Vincere e giocar bene è privilegio di pochi, il destino dei campioni. Libero campione non lo era.”

“Fra l’Arno e la strada” di Manuele Marigolli è un romanzo nel vero senso del termine con una struttura moderna, dove la “memoria” viene di continuo interrotta da una sorta di “flusso di coscienza” che implica frequenti “flash-back”; è un “romanzo di formazione” che segue la crescita e la maturazione del protagonista, Libero, per l’appunto come descritto sopra dall’autore “uomo libero”; è un romanzo dall’andamento classicheggiante in molte delle sue parti dove si respira una poetica elegiaca nel recupero di raffinati spazi nascosti dalla quotidianità che tutto tende ad obnubilare e che attraverso sprazzi preziosi emergono grazie alla sorprendente capacità stilistica dell’autore, che sin dalle prime pagine si rivela accanto a riflessioni esistenziali eterne: “Vola. Vola con le ali del sogno oltre i monti e le colline. Vola sui boschi di querce e di castagni. Sale fino ai faggi e agli alberi dei crinali. Scende per valli e fiumi, e vola. Vola fino al primo ricordo che la sua mente sappia rievocare”. Ce n’est qu’un début….” direbbero i sessantottini. Ed è così, non è che l’inizio: siamo soltanto a pag.25 (la 15° del romanzo).

Nella prima parte del commento che ieri ho pubblicato parlavo di “una sorta di flusso di coscienza”; “una sorta”, perché non si tratta di sequenze di termini “apparentemente” alla rinfusa ma di blocchi interi di memoria in un insieme di ricordi appiattiti dal tempo, il quale viene segnato esclusivamente dagli eventi “storici” sia quelli che Libero non ha vissuto direttamente ma li ha conosciuti come se fossero suoi dalle narrazioni dei suoi nonni e degli zii, sia quelli che riguardano la Vita di Libero e che rappresentano la sua crescita civile. Nello scrivere “Fra l’Arno e la strada” Manuele Marigolli ha voluto- e questo identifica questo romanzo come “opera prima” di ottimo livello – fare i conti con la storia della sua gente, recuperandone sprazzi di esistenza quotidiana partendo dagli anni più crudi della barbarie fascista e dell’insensatezza della guerra portandosi fino ai giorni nostri. La scrittura di “Fra l’Arno e la strada” funziona per Manuele anche come antidoto nei confronti di un tema terribile che condiziona l’esistenza degli umani: la tanatofobia, la paura della morte; nel libro troviamo questa ricerca frequente di esorcizzare tale timore, sin dalle primissime pagine

“L’angoscia era originata dalla convinzione che solo la morte avrebbe cancellato lo stato di felicità. La coscienza dello stato di grazia ritrovato (n.d.r. l’amore per Teresa, la compagna di tutta una vita) sarebbe finito in “una fossa di nebbia appena fonda” gli risvegliò l’antico terrore. L’esaltazione dell’amore gli faceva credere che solo la morte avrebbe potuto impedire a quel sentimento di essere eterno. La certezza che di quell’emozione non sarebbe rimasto assolutamente nulla, persa in un lago di niente, risvegliò la paura che lo aveva accompagnato per tutta l’infanzia e l’adolescenza.”

E via via così fino alla fine del romanzo, attraverso la morte dei suoi cari anziani, i nonni prima e poi i genitori, “vissute come un fatto che andava nell’ordine naturale delle cose…elaborate triturando il dolore nel fondo del suo animo, non rispondendo con la rimozione ma con il ricordo”, sino alla morte considerata ingiusta “un non senso, un fatto contro natura, un fiume che torna indietro dal mare”, quella della cara Teresa, colpita da un male non curabile che la spense in meno di un mese.

Abbiamo scritto che nel romanzo “Fra l’Arno e la strada” Manuele Marigolli ha inteso fare i conti con tutta una serie di angosce esistenziali, a partire da quelle collegate ai misteri della “morte”. Il suo personaggio, alter ego “Libero”, riesce a superarle solo nelle pagine finali “Non ha più bisogno di inventarsi dei sotterfugi per ingannarla come faceva da bambino prima di addormentarsi, ora è la malattia che lo terrorizza”: ed è con quest’ultima che Libero ingaggia la sua ultima sfida. “La paura della morte che lo aveva terrorizzato adesso non gli appartiene più, anche se non l’ha superata di colpo ma lentamente, giorno per giorno.” Ed è la perdita della persona a lui più cara, un momento estremamente triste e doloroso, che gli permetterà di riconciliarsi, arrendevolmente, con il naturale flusso della Vita. In fondo “il terrore della morte si era sempre manifestato nei momenti più belli.” E le donne, le donne che lo accompagnano nella sua vita, sono figure straordinariamente positive, a partire dalla nonna Dina, della quale parleremo poi, fino alla sua compagna Teresa, alla giovane Irene ed alla figlia Eugenia. Irene appare sin dalle prime pagine come bellissima, sensuale e snella, elastica e morbida nell’incedere, sorridente: è la personificazione della giovinezza e della bellezza che un tempo hanno coinvolto Libero da giovane e che ora nei giorni della maturità inoltrata ritornano prepotentemente ed inaspettatamente a galla. Libero incontra Irene casualmente con la complicità dell’altra sua passione, la caccia ed i cani (ai quali Manuele dedica parte considerevole del suo romanzo) che lo hanno accompagnato nel corso della vita. E poi c’è stata Teresa, che alla fine non c’è più (“La malattia si manifestò cruenta, senza dare neppure il tempo di elaborarla, un male non curabile la aggredì e la spense in meno di un mese.”): l’amore di una vita, l’AMORE, scoperto nelle fumose “riunioni semi clandestine in cui sembrava che si stesse progettando la rivoluzione.” Era l’inverno del 1975. Teresa “aveva i capelli raccolti dentro un foulard rosso con fiorellini neri, legato dietro la nuca…Due ciocche di capelli neri e lucenti…occhi neri come la notte, sopracciglia lunghe, fronte alta, bocca ben disegnata e un sorriso che la illuminava…” E’ AMORE a prima vista, l’Amore di una vita. E poi c’è Eugenia, la loro figlia, con cui Libero ha un difficile rapporto collegato ad un episodio del quale egli porta dentro di sè il dolore di una profonda reciproca incomprensione (“Con lui non riesco a lasciarmi andare, c’è qualcosa che mi frena, che mi ha sempre impedito slanci emotivi.”); ma è lei che ha in mano il destino di Libero e dovrà impegnarsi a riportarlo di nuovo alla Vita.
Le donne di Libero, dunque! I personaggi femminili prevalgono (come, d’altronde, accade nella vita di noi tutti) per la loro profonda concretezza; avevamo accennato alla nonna Dina, una vera e propria femminista “ante litteram”: “Libero vedeva nella nonna il prototipo della donna emancipata. Lei non aveva avuto bisogno di costituire gruppi di coscienza al femminile, di partecipare a movimenti di nessun genere per affermare un bisogno e un diritto….aveva potuto contare su una volontà granitica….Senza mai prendersi troppo sul serio, con un gran senso dell’ironia…Non credeva in un aldilà…Ma credeva nella persona, nella compassione e nella solidarietà del vicino…nell’indivduo, nell’azione del singolo…Era una anarchica individualista…”.

E poi c’era anche l’altra nonna, Annita, da cui Libero apprende le tecniche della “narrazione”: “Quando Libero da bambino restava a dormire da Annita nella casa sul fosso, la nonna, che era una grande narratrice, gli raccontava del tempo passato”.

Ma “Fra l’Arno e la strada” è anche un libro che affida i suoi personaggi alla Storia del Novecento: dal tempo e dai contrasti fra laici e credenti, fra comunisti e democristiani negli anni della Guerra Fredda (“Dal primo luglio del 1949 la Chiesa aveva scomunicato chi era iscritto, chi votava, chi diffondeva la stampa e le idee comuniste…Il Partito allora indicò loro un sacerdote fiorentino. Si sposarono a Firenze…il matrimonio venne celebrato da un prete giovane, che credeva più nel Vangelo che nelle gerarchie….”) fino alle vicende legate alle varie piene dell’Arno ed all’alluvione del novembre 1966, cui Manuele Marigolli dedica un intero capitolo pieno di vicende ed aneddoti; per arrivare poi al Sessantotto ed alle grandi manifestazioni che vedono operai e studenti insieme nella lotta (“La nostra lotta è anche la vostra, vogliamo un mondo in cui i figli degli operai possano studiare, farsi una cultura per non essere più solo numeri buoni per la produzione e lo sfruttamento”).

Si accenna anche allo “strappo” dei compagni del “Manifesto” primo momento di sbandamento per Libero che non comprende i motivi per quella “estromissione” a loro comminata dal PCI e considerata di stampo stalinista. La Storia continua ad accompagnare Libero nella scoperta della passione politica che va di pari passo con la sua crescita civile, culturale ed umana (si snodano davanti ai nostri occhi momenti drammatici come il sequestro Moro, l’uccisione di Guido Rossa e di tante altre persone innocenti colpevoli solo di opporsi al terrorismo di quegli anni). E, al di sopra di tutto, rimane un’unica straordinaria passione che accompagnerà Libero nel romanzo di Marigolli dalla prima all’ultima pagina: la caccia con i suoi riti, le attese, le angosce collegate al profondo rispetto nei confronti della natura che gli viene inculcato dallo zio Mareno, che per la prima volta lo accompagnò a caccia di beccacce. La lettura di quelle pagine è di una profonda emotiva piacevolezza, soprattutto allorché Libero ritrovandosi fra le mani il corpo senza vita della prima beccaccia avvertì un profondo senso di colpa che stemperò l’entusiasmo dell’attesa (“Libero conobbe allora la contraddizione di amore e morte che alberga nel cuore di ogni beccacciaio, ne divenne prigioniero e quella malattia non lo avrebbe più lasciato per tutta la vita.”).

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Manuele Marigolli ha costruito, forse spinto da un suo personale impellente bisogno di ricostruire parti della sua Storia facendola accompagnare per mano lungo i sentieri del Novecento, un romanzo piacevolissimo colmo di riferimenti alla sana e ricca cultura popolare della sua gente, che gli consente di costruire personaggi che, di certo riferiti alla realtà, rimarranno indelebili nella memoria dei lettori.

ricordando “Giovanna” di Gillo Pontecorvo – 8 marzo 2018 Biblioteca “Lazzerini” Prato ore 21.00

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ricordando “Giovanna” di Gillo Pontecorvo – 8 marzo 2018 Biblioteca “Lazzerini” Prato ore 21.00

Voglio oggi riproporre quel che mi disse Armida Gianassi, protagonista del film “Giovanna” di Gillo Pontecorvo, quando nel 1990 la intervistai per il documentario “Alla ricerca di Giovanna”

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inizia l’intervista ad
Armida Gianassi, interprete del personaggio di Giovanna

“Mi ricordo un pomeriggio in cui eravamo, come succedeva spesso, a ballare al circolo Rossi. Ad un tavolino c’erano dei signori nuovi. Li notammo perché siamo un po’ abituati a vedere sempre le stesse facce nei locali dove abitualmente andiamo. Quei signori guardavano, guardavano, osservando le coppie che ballavano. Dopo un po’ si alzarono e mi vennero a domandare cose un po’ strane – chi ero, cosa facevo – poi mi chiesero se mi andava di fare un provino per un film. Lì per lì mi venne da ridere – mah…, mi dissi, un film, io…- Li guardai un po’ e poi ricominciai a ballare. Loro sedettero di nuovo e continuarono a osservare, e di nuovo dopo poco si avvicinarono. Mi dissero: “guardi che noi facciamo sul serio, non è che scherziamo”. Intanto li avevo visti seduti con il sindaco Giovannini, con Bruno Fattori, con persone che conoscevo da tanto tempo e quindi cominciai a pensare che forse forse non scherzavano. E così, sia il sindaco che Fattori mi dissero: “ma guarda che fanno sul serio, vuoi fare un provino?” Io accettai. Ho fatto il provino e dopo qualche giorno mi dissero che tutto andava bene, che se volevo…e così abbiamo fatto il film.
I ricordi di allora sono tanti, vengono in mente così…un ricordo tira l’altro. Come quando si prende una pallina in mano e via via vengono in mente le filastrocche di quando eravamo bambini. Al tempo di Giovanna facevo la vita delle ragazze di allora: il lavoro, il sabato a ballare, le passeggiate a Firenze e così via; non c’era molto altro da fare a quei tempi. Alla sera andavo spesso al circolo a Grignano, mi ero iscritta alla Federazione Giovanile Comunista, ma non facevo molta attività, perché contemporaneamente avevo ricominciato ad andare a scuola, frequentavo i corsi serali alle scuole Calamai di via Pugliesi: cultura generale, storia, italiano, matematica, stenodattilografia. I corsi erano fatti abbastanza bene e molto interessanti , con vecchi professori che avevano insegnato al Cicognini, Mi ricordo del prof. Bresci, del prof.Balugani. Non era che un diploma di scuola serale, però a me serviva, perché volevo migliorare.la mia condizione. Lavoravo dalle otto del mattino fino alle cinque e mezza di pomeriggio, alle sei cominciavano i corsi, fino alle otto mezzo o anche alle nove. Insomma il tempo era quello che era e anche l’attività al circolo diminuì.
Sono nata nel Mugello. Mi ricordo quando venivo a lavorare a Prato, avevo soltanto 13 anni la prima volta. La mia mamma era terrorizzata all’idea di mandarmi in questa città di lavoro, e mi accompagnava la mattina all’autobus. L’autobus passava sulla strada provinciale tra S.Piero a Sieve e Barberino di Mugello e sul ponte a Bilancino faceva la fermata. La mamma si raccomandava all’autista e diceva “Piero – così si chiamava l’autista, era un uomo piuttosto grosso – mi raccomando questa bambina, dà un occhio!”, diceva proprio così: “dà un occhio!”. Così venivo a lavorare a Prato. Allora lavoravo alla tipografia Rindi, proprio dietro Piazza Duomo.
La mattina mi alzavo alle cinque, alle sei avevo l’autobus, dopo aver fatto un chilometro a piedi, sempre in corsa, sempre all’ultimo momento. E molte volte di lontano vedevo l’autobus fermo e sentivo che mi chiamavano (nella notte i suoni si sentono bene). Bastava che urlassi “eccomi!” e mi aspettavano. L’ho fatta per cinque anni quella vita. D’inverno non vedevo il sole durante la settimana, partivo alle sei la mattina e ritornavo a casa alle otto di sera. Solo la domenica vedevo il giorno.
Mi ricordo che quando arrivavo in piazza Duomo, la mattina, guardavo i ragazzini che andavano a scuola. Era il sogno della mia vita andare a scuola, però non potevo permettermelo: nella mia famiglia eravamo quattro sorelle e un ragazzino piccolino, c’era solo mio padre che lavorava, e non sempre. Sicché studiare era un sogno e basta. Io nella vita non ho mai invidiato null’altro, solamente i libri sotto il braccio di quei ragazzi. Era una cosa che mi faceva male dentro. Non so se era invidia… era dolore, proprio dolore. Ho sempre sognato di andare a scuola, anni dopo ho frequentato le scuole serali, ma era un’altra cosa.

“Poi abbiamo lasciato la campagna. Con tanto rimpianto. Per chi nasce in campagna è difficile vivere nella città. Firenze la conoscevo fin da bambina, perché mio padre qualche volta mi ci portava. Prato invece era una città anomala, si lavorava, si lavorava e basta. L’unico respiro era salire su un autobus e andare a Firenze, lì c’era un’altra atmosfera. Poi sono passati gli anni, mi sono abituata a Prato. Era la città che mi aveva accolto, che mi aveva dato da vivere, che mi aveva fatto crescere, in cui avevo mosso i primi passi nella vita, e sono sempre pieni di entusiasmo e di sogni. Quindi sono riconoscente a questa città, e qui sono ritornata a vivere dopo averla lasciata. Però è una città che mi ha fatto anche soffrire.
Io non ho vissuto l’esperienza della grande fabbrica. Quando mi proposero di fare Giovanna lavoravo alla ditta Suckert, in via S.Silvestro all’angolo di Piazza Mercatale. Ho lavorato lì perché conoscevo i proprietari, la famiglia Suckert. Li avevo conosciuti nel Mugello quando ancora stavo lassù. Era una piccola ditta che fabbricava corde per filature, con poche persone a lavorarci. In tutto, al completo, eravamo sette o otto. Era una ditta a dimensione familiare in cui si stava bene, se c’era qualche problema ci aiutavamo, se c’era qualche rivendicazione da fare al titolare parlavamo una per tutte e la cosa veniva definita.
Mi ricordo che quando ho avuto l’occasione di Giovanna non sapevo come fare, perché in ditta c’era molto lavoro. Chiesi il permesso al titolare, vennero sia Montaldo che Pontecorvo a chiedere se poteva concedermi i permessi per girare il film. Durante la lavorazione non ho mai smesso completamente di lavorare in fabbrica. C’erano giorni in cui dovevo essere tutto il giorno sul set, altri in cui ci stavo mezza giornata, e mezza giornata andavo a sbrigare il mio lavoro in fabbrica. I proprietari non mi crearono problemi, anzi furono quasi contenti di darmi i permessi.
Dopo il film Giovanna ho continuato a lavorare, ho fatto le stesse cose che facevo prima, anche se c’era qualcuno in più che mi salutava per strada o mi riconosceva. Poi mi hanno invitata a Roma, ho visto il film. Ho anche avuto qualche proposta, però l’ho rifiutata perché già a quel tempo avevo conosciuto mio marito, e quindi…. Insomma, avevo preso un’altra strada.
Ho continuato a lavorare nella stessa ditta, nell’attesa di farmi poi una famiglia. Poi mi sono sposata e ho lasciato Prato per andare a vivere a Firenze, e così ho fatto la vita di tante donne che si sposano, che lasciano la propria città, le amicizie, e ho ricominciato daccapo. Ho avuto i miei figli, la prima una bambina, e per guardare mia figlia ho rinunciato a lavorare. Così la mia vita è continuata come quella di tante e tante altre donne. Poi ho avuto un’altra figlia, ho cambiato ancora città, ho lasciato Firenze. Insomma un susseguirsi di cose, cose normali di una vita normale. Ho cercato di trasmettere alle mie figliole i sogni che io forse non avrei realizzato, ma il cammino continuava e sarebbe continuato con loro, e forse in parte i miei sogni gli avrei realizzato attraverso di loro. Ho sempre insegnato alle mie figlie che, pur essendo nate donne, non per questo non dovevano avere la loro vita. Dovevano cercare soprattutto di studiare. Io ho sempre avuto il pallino dello studio, forse perché, quando ero giovane, non ho potuto realizzare questo desiderio.
Confesso che soltanto quando vidi il film tutto montato ho capito l’importanza della cosa, più grande di quella che mi era sembrata durante la lavorazione; ho capito che valeva la pena averlo fatto, perché Giovanna rappresentava nel film il problema di tante donne, specialmente a Prato dove le fabbriche erano così tante: rappresentava la sofferenza della donna nella fabbrica, la fatica della donna che lavorava e che aveva il doppio lavoro, in fabbrica e alla sera in casa, in famiglia. Quando vidi il film mi sono detta che era proprio quello che pensavo, che intuivo ma non riuscivo ad esprimere con tanta chiarezza.”

– a cura di Giuseppe Maddaluno (Joshua Madalon)

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RICORDANDO “GIOVANNA” di GILLO PONTECORVO

RICORDANDO “GIOVANNA” di GILLO PONTECORVO

Parlerò di “Giovanna” ancora una volta, su richiesta di Rossella Foggi leader di “FareArte” questo prossimo 8 marzo. L’ho fatto molte volte negli ultimi anni dal 1982 ad oggi. Leggendo altri post del mio Blog inserendo il titolo “Giovanna” potrete ritrovare molte delle indicazioni utili a comprendere le motivazioni che portarono prima di tutto il team del film del 1956 a realizzarlo a Prato e poi il gruppo che era stato costruito negli anni Ottanta intorno al Cinema TERMINALE a recuperarne la memoria andando a scrivere una sceneggiatura intorno a quel film. Ne fui protagonista ed è uno dei motivi fondamentali che mi legarono e mi legano a questa città.
Qui di seguito, ad utile corollario di questo breve post allego il filmato di una mia intervista nell’occasione di un’iniziativa curata da Chiara Bettazzi per Tuscan Art Industry del 2015, preceduto dalla descrizione di quella parte degli eventi che si svolsero all’interno della Fabbrica ex Lucchesi (quella antistante la Piazza dei Macelli).
Subito dopo trovate copia della locandina che pubblicizza l’evento di questo 8 marzo 2018 preceduto dal testo che ne accompagna l’evento su Facebook (sarò in ottima compagnia).

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MERCOLEDI 15 LUGLIO 2015

ORE 19.00
TAI / anteprima alla mostra

ORE 21.00
DIARI URBANI / approfondimenti

Conversazione sul Documentario realizzato intorno al ritrovamento della pellicola del film “Giovanna” di Gillo Pontecorvo e alla realizzazione del restauro del film, con Stefania Rinaldi e Giuseppe Maddaluno.

ORE 22.00
PROIEZIONE FILM “GIOVANNA” DI GILLO PONTECORVO
Sede EX Fabbrica Lucchesi Piazza dei Macelli.

“Giovanna” film degli anni 50, quasi dimenticato, fu l’esordio del regista neorealista Gillo Pontecorvo. Girato a Prato con attori non professionisti narra, gli aspri conflitti sindacali delle lavoratrici tessili.
Il film, finanziato da un’organizzazione femminile comunista della Germania est , fu presentato a Venezia nel 1956 ma non fu mai distribuito e subito dimenticato. Racconta la lotta delle operaie per difendere il loro posto di lavoro, contro i padroni e anche contro i loro stessi mariti che disapprovano l’occupazione della fabbrica e il loro protagonismo.
La protagonista (Giovanna) fu Armida Gianassi, reclutata nella sala da ballo di una Casa del Popolo.
I temi trattati sembrano molto attuali: licenziamenti e lavoro precario.
Gli anni ’50, ’60 e ’70 non furono rose e fiori. I pratesi non furono tutti imprenditori.
I diritti non vennero regalati. Il film fu girato nel Lanificio Giulio Berti. La fabbrica era detta anche “La Romita” perché formatasi intorno all’antico “Molino della Romita” sulla gora omonima che infatti si vede nel film, ancora ricolma d’acqua. Oggi abbattuta e quindi scomparsa per far posto ad anonimi palazzi.

8 marzo 2018 ore 21,15 serata-evento Biblioteca Lazzerini, sala conferenze
“DONNE E LAVORO NELLA PRATO DEL 900”
Operaie, imprenditrici e manager, storie di emancipazione femminile nella città che cambia.
Proiezione di alcuni brani del corto “Giovanna” di Gillo Pontecorvo (1955), la storia di una
ribellione al femminile per la difesa del proprio posto di lavoro.
Protagoniste le operaie del lanificio Giulio Berti che, capeggiate dall’intrepida Giovanna, occupano la fabbrica e protestano contro i padroni che le vogliono licenziare e contro gli stessi mariti che
non abbracciano la loro causa.
Testimonianze e proiezioni di immagini su alcune personalità femminili Pratesi particolarmente distintesi nel campo sociale e lavorativo.
Interventi:
Paola Giugni: Emma Luconi Caciotti, perfetta ospite dell’Hotel Stella d’Italia.
Rita Frosini Faggi: Virginia Frosini, fondatrice e anima dell’Istituto Santa Rita, che accoglie minori abbandonati o in difficoltà.
Pierfrancesco Benucci: Rosalinda Lombardi, imprenditrice dell’industria tessile pratese.
Patrizia Bogani, prima allieva donna dell’Istituto tessile “Buzzi” insegnante ed artista.
Giuseppe Maddaluno: note sul corto “Giovanna”
Modera: Rossella Foggi.
INGRESSO LIBERO.
www.farearteprato.it
Info: segreteriafarearte@gmail.com

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ANNIVERSARI 2018 – VERSO IL GIORNO DELLA MEMORIA (27 GENNAIO 1945 – 27 GENNAIO 2018) parte 6

ANNIVERSARI 2018 – VERSO IL GIORNO DELLA MEMORIA (27 GENNAIO 1945 – 27 GENNAIO 2018) parte 6

Il videofilm ha inizio con il buio. Scegliemmo congiuntamente quella forma, seguita subito dopo dall’ouverture corale della Passione secondo Matteo BWV 244 di Johann Sebastian Bach

Kommt, ihr Töchter, helft mir klagen
Kommt, ihr Töchter, helft mir klagen,
sehet! – Wen? – Den Bräutigam.
Sehet ihn! – Wie? – Als wie ein Lamm.
Sehet! Was? – Sehet die Geduld!
Sehet! – Wohin? – Auf unsre Schuld!
Sehet ihn aus Lieb und Huld
Holz zum Kreuze selber tragen!

Venite, figlie, aiutatemi a piangere…
Guardate! – Chi? – Lo sposo.
Guardatelo! – Come? – Come un agnello.
Guardate! – Che cosa? – Guardate la pazienza!
Guarda! – Dove? – Per nostra colpa!
Guardatelo come per l’amore e per la grazia
porta egli stesso il legno della croce!

Quando arriva la luce ci troviamo nella platea del Magnolfi con una breve carrellata sulle macerie e sulla svastica disegnata in modo grossolano sopra una delle pareti. Ci si sposta poi ai piani superiori dove il Coro, Taltibio ed Ecuba con altre ancelle-donne si muovono nell’esprimere il senso fatale del loro destino di oppressori ed oppressi.
Al termine del testo euripideo Ecuba si allontana nell’ombra divenendo anch’essa ombra errante. Il buio ritorna ad essere forma e in lenta dissolvenza lascia il posto al segno del tempo che scorre fino ad una deflagrazione espressa attraverso le immagini di Zabriskie point del maestro Michelangelo Antonioni sotto le quali voci confuse di idioma germanico sovrapposte indicano l’avvento del nazismo con le sue minacce nei confronti della libertà e della democrazia.

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Ecuba ritornerà nella scena finale come ombra solitaria che ripercorre le stanze della patria abbandonata, memore della tragedia consumata con la morte atroce del piccolo Astianatte. Ci aiutarono moltissimo le parole del testo (“NON POSSO TACERE GLO ORRORI – per Suada e gli altri) elaborato insieme al professor Antonello Nave in una scrittura drammaturgica in un atto fra la guerra di Troia e quella di Bosnia, che qui di seguito riporto:
(il brano è il numero 7)

Giulia-Ecuba: lamento su un bambino ammazzato.
“Tu piangi, bambino? Hai dei tristi presentimenti? Perché ti avvinghi a me, ti stringi alle mie vesti, perché ti getti sotto le mie ali come un uccellino? Ettore non uscirà da sottoterra, impugnando la lancia, per salvarti; la famiglia di tuo padre e la forza di questa città non esistono più. Non ci sarà pietà: precipiterai con un salto orribile dalle mura, sfracellato esalerai l’ultimo respiro.
Cosa aspettate?! Su, forza, scaraventatelo dalle mura, se avete deciso così: spartitevi le sue carni. Perché gli dei ci annientano e noi non possiamo impedire la morte di questo bambino.
Perché vi siete macchiati di un delitto tanto mostruoso? Per paura di un bambino? Temevate che avrebbe resuscitato Troia dalle sue ceneri?….”

A questo testo in uno dei miei commenti avevo fatto precedere un’elaborazione ispirata dal titolo “NON POSSO TACERE GLI ORRORI” dei testi sopra riferiti.

“Io, io non posso tacere gli orrori
non posso tacere l’umana perversa follia
non posso tacere le infinite tragedie delle guerre che chiamano “civili”
non posso tacere l’arrogante presunzione dell’animo umano.
Non posso tacere l’ottusa intolleranza
non posso tacere le umiliazioni, le torture,
la volontà di annientamento totale dell’avversario
le “pulizie etniche”,
il fanatismo ideologico e religioso
non posso tacere la stupidità di chi, senza mai dubitare, acconsente.

Non posso tacere gli orrori di questo secolo che si compie.”

Queste parole vengono pronunciate da Giulia Risaliti mentre percorre le stanze e vi fanno eco gli altri componenti (Irene Biancalani, Stefano Mascagni e Linda Pirruccio)

fine parte 6….continua….

Joshua Madalon

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ANNIVERSARI 2018 – VERSO IL GIORNO DELLA MEMORIA (27 GENNAIO 1945 – 27 GENNAIO 2018) parte 5

ANNIVERSARI 2018 – VERSO IL GIORNO DELLA MEMORIA (27 GENNAIO 1945 – 27 GENNAIO 2018) parte 5

Il fumo delle fiamme ormai sopite si diffonde sulle rovine della città. Tutto intorno è distruzione. Le donne si muovono come ectoplasmi tra cumuli di macerie. La tragedia di Euripide, “Le Troiane”, quella che narra degli ultimi istanti della permanenza delle donne nella loro città, mentre attendono il compimento del loro destino di schiave “deportate” alla corte degli Achei (Cassandra viene data ad Agamennone, Andromaca a Neottolemo ed Ecuba a Ulisse), appariva la più adatta ad essere un riferimento con un’analoga vicenda tragica del XX secolo che ci apprestavamo a ricordare.
Il sopralluogo che aveva lasciato il segno sulla mia caviglia ne aveva tuttavia impresso uno più solido nel mio animo: quelle immagini di abbandono, quell’odore intenso di muffa, quella polvere che si sollevava naturalmente ad ogni passo ad ogni spostamento di infissi, quegli oggetti che parlavano di vite che erano di là transitate apparivano nella mia memoria una naturale location per una messinscena teatrale utile a rinnovare il ricordo per le nuove generazioni ai quali intendevo dedicare il mio impegno intellettuale.
il lavoro di costruzione della sceneggiatura era stato continuato ed avevamo fatto crescere l’attesa per il giorno in cui avremmo avviato le riprese. Avevo temuto che qualcuno avesse potuto recarsi all’interno del complesso “Magnolfi” a ripulire gli ambienti: la fiducia era ovviamente e per fortuna mal riposta.
Facemmo un nuovo sopralluogo con l’operatore ed il tecnico del Metastasio. Pippo Sileci mi accompagnò, insieme ad un primo gruppo di giovani del “Cicognini” e del “Dagomari”. Avvertimmo tutti di essere molto attenti nel procedere: sapevamo di avere una responsabilità che andava oltre il lecito. In quel luogo cadente poteva accadere anche qualcosa di pericolosamente irreparabile. In effetti trovammo tutto nello stesso ordine in cui quattro mesi prima avevamo lasciato quegli spazi: la stessa polvere – forse qualcosa di più non certo di meno – e gli stessi oggetti, gli stessi orrendi graffiti. La foto che allego riprende un momento di quel sopralluogo.

Magnolfi -Olocausto

Chiedemmo al tecnico teatrale di poter avere un minimo supporto con una macchina del fumo ed un generatore elettrico per l’illuminazione artificiale.
Decidemmo poi insieme ai giovani la data per le riprese. Quella parte del testo che doveva fare da introduzione era praticamente già pronta nella recitazione. Occorreva impostare i movimenti e scegliere le diverse posizioni scenografiche.
Questo è il testo da “Le Troiane” di Euripide, che viene recitato da Irene Biancalani (Coro), Stefano Mascagni (Taltibio) e Giulia Risaliti (Ecuba).

Coro. “Povera madre, che ha visto spegnersi con te le speranze più belle. Ti credevamo felice, perché disceso da una stirpe grande; e atroce fu la tua morte. Vedo in alto alle mura braccia che muovono fiamme nell’aria. Il fato vibra un altro colpo su Troia.”

(Rientra Taltibio seguito da guardie)

Taltibio.

“Ordino a voi, uomini prescelti a distruggere la città di Priamo, di appiccare il fuoco alle case, affinché dopo aver tutto annientato e bruciato, possiamo salpare liberamente da Troia. Voi, figlie dei Troiani, appena sentirete uno squillo oscuro di tromba, recatevi alle navi degli Achei per partire con loro. E tu seguile, infelicissima vecchia. Costori son venuti a prenderti da parte di Ulisse, di cui ti fa schiava il destino.”

Ecuba.

“Misera me. Ecco l’estrema, veramente il colmo, di tutte le mie sciagure: mi spingono fuori, lontana dalla patria che brucia. Vecchio piede, affrettati, con il corpo stanco: affrettati veloce a rivolgere l’ultimo saluto alla povera patria. Troia, che un tempo respiravi di grandezza, tu perdi il tuo nome superbo. Tu ardi e noi ti lasciamo. Voi, o dei… Ma perché invoco gli dei? Essi non odono. Nè mai hanno udito la mia voce, che pure fu alta. Su, corriamo dove l’incendio arde. La morte più bella per me è là, con le fiamme della patria.”

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…fine parte 5…continua

Joshua Madalon

ANNIVERSARI 2018 – VERSO IL GIORNO DELLA MEMORIA (27 GENNAIO 1945 – 27 GENNAIO 2018) parte 4

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ANNIVERSARI 2018 – VERSO IL GIORNO DELLA MEMORIA (27 GENNAIO 1945 – 27 GENNAIO 2018) parte 4

Su via Gobetti c’è l’ingresso principale del complesso Magnolfi, e c’era anche venti anni fa, ma il portone non era accessibile; per poter entrare occorreva procedere a sinistra per un viale sterrato che introduceva ad un ampio cortile occupato in quel tempo – non so ora cosa vi sia – da auto in attesa di essere aggiustate in tutti i sensi (carrozzeria, motore, suppellettili varie).
Vi era un gran disordine.
Per andare all’interno del complesso dopo aver costeggiato le mura sormontate da ampi finestroni polverosi e sconnessi sia negli stipiti che nei vetri, che presentavano ampi squarci, vittime di chissà quali monellerie locali, si accedeva da una porticina. Gabriele che mi accompagnava, tirò fuori da un borsello un mazzo di chiavi e provò a lungo prima di riuscire ad aprire.
Verosimilmente quella porta non era stata aperta da un pezzo ed infatti fece ulteriore resistenza quando, dopo aver sentito l’ultimo scatto della serratura, dovemmo spingerla per attraversarla. E già con quell’azione si alzò un primo piccolo polverone ed un odore tipico della muffa umida dell’abbandono colpì le nostre narici.

Dentro era buio e, come prevedibile, non vi era alcuna possibilità di illuminare gli ambienti in modo artificiale, per cui provvedemmo alla meno peggio con delle torce, non osando procedere nell’apertura di qualche imposta, visto i precedenti.
Davanti avevamo un grande corridoio che portava verso un altro altrettanto grande largo passaggio che sulla destra arrivava fino al portone di ingresso principale, quello di via Gobetti.
A sinistra c’era una porta più piccola e Gabriele mi disse che era quella del Teatro. La aprì senza grandi sforzi e mi precedette. La austera struttura ottocentesca mi apparve nel suo totale abbandono. Fui colpito da un cumulo di residui di varia natura: calcinacci, stracci, legni di varia misura che erano appartenuti ad oggetti inqualificabili, e sulle pareti scritte di vario genere ed una svastica di grandi dimensioni.
L’abbandono era evidente, ed anche lo smarrimento della ragione: a me appariva un ritorno in una dimensione che non avevo conosciuto ma della quale avevo sentito argomentare e che aveva prodotto in me profondi turbamenti: immaginai per un attimo di trovarmi in un luogo che era stato attraversato dalla violenza e misuravo i miei passi. Salimmo con trepidazione intellettuale ai piani superiori, là dove c’erano state le aule e le camerette degli orfani.
Tutto sossopra e tanta polvere, porte scardinate, mura sgretolate ed in fondo, in un angolo di una stanza buia, una culla, a segno di una presenza infantile non troppo tempo addietro.
Da altre scale ci spingemmo poi al piano superiore, l’ultimo e più alto fatto di sottotetti ampi ed abitabili. Qui la confusione era minore, forse non era stato accessibile negli ultimi tempi! C’erano delle finestre oblique che spingevano la mia curiosità. Mi allungai salendo su un tavolo ed allungando lo sguardo al di là dei vetri osservai lo skyline del centro di Prato con i vari campanili svettanti. Osai scendere dal tavolo con un salto e mi ritrovai con una lussazione alla caviglia destra. Scesi dolorante le scale ed andai al Pronto Soccorso, evitando di menzionare compagnia e luogo dove mi ero infortunato, non essendo possibile alcuna copertura assicurativa per un’impresa di quel genere.
Essenzialmente per questo motivo rinviai le riprese alla primavera successiva.

…fine parte 4….continua

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ANNIVERSARI 2018 – VERSO IL GIORNO DELLA MEMORIA (27 GENNAIO 1945 – 27 GENNAIO 2018) parte 3

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ANNIVERSARI 2018 – VERSO IL GIORNO DELLA MEMORIA (27 GENNAIO 1945 – 27 GENNAIO 2018) parte 3

Avviammo a lavorare intorno al progetto all’avvio dell’anno scolastico 1997/98; chiesi la collaborazione di tutti gli Istituti medi superiori della provincia di Prato, ottenendo la partecipazione, oltre che della scuola dove insegnavo (ITC “Paolo Dagomari”), del Liceo Scientifico “Niccolò Copernico” con allievi coordinati dal prof. Giuseppe Barbaro che curarono la parte relativa al “Diario di Anna Frank”, dell’Istituto Professionale “Datini” coordinati dal professor Mauro Antinarella, del Liceo Scientifico “Carlo Livi” coordinati dal professor Giorgio de Giorgi, del Lieco Classico “Cicognini” coordinati dal professor Antonello Nave.
Dopo una riunione preliminare in assessorato alla Cultura con i funzionari avviammo gli incontri di presentazione in ogni scuola che aveva aderito confrontandoci in modo aperto e coinvolgente.
Avevamo pensato di realizzare un teaser da presentare pubblicamente come annuncio alla stampa poco prima dell’inizio delle festività natalizie, durante le quali avremmo dovuto lavorare con gli studenti in un’impresa che appariva complessa ma possibile. L’idea era quella di portare il prodotto finito entro la data canonica del 27 gennaio 1998.
Non ci riuscimmo anche perchè come molto spesso si dice “il diavolo ci mise la coda”.
In quel periodo ero consigliere comunale e mi occupavo in primo luogo di Scuola e Cultura, settori per i quali potevo vantare qualche credito visto quel che facevo e quel che avevo già fatto. In particolare quelli erano gli anni della “battaglia” per il riconoscimento di “Teatro Nazionale Stabile” per il “Metastasio” e mi stavo battendo anche contro le posizioni della maggioranza del mio Partito, PDS, che era piuttosto tiepida in quella scelta. Alla Presidenza c’era Alessandro Bertini, architetto con esperienze acquisite nel campo della scenografia ed alla Direzione amministrativa c’era Teresa Bettarini. Il Direttore artistico era il grande compianto Massimo Castri, regista annoverato nella triade che comprendeva Luca Ronconi e Giorgio Strehler, il primo dei quali peraltro aveva messo in scena a Prato molte delle sue straordinarie mitiche regie.
Avevo richiesto la cooperazione del Teatro, che in quel periodo, come ancora oggi ma in ben diverse migliori condizioni, possedeva le chiavi del complesso “Magnolfi” in via Gobetti. Per chi non è di Prato consiglio di consultare il sito http://www.magnolfinuovoprato.it/it e di leggere il libro “il MAGNOLFI nuovo” prodotto dal Comune di Prato nel 2004 nel quale, tra le altre ben più importanti, troverete una mia introduzione dal titolo “UN AMICO RITROVATO”.
E fu così che, in una mattina di fine ottobre, insieme a Gabriele Mazzara Bologna che in quel periodo svolgeva attività di “tecnico teatrale” presso il Metastasio, mi recai a svolgere un sopralluogo nelle stanze del Magnolfi che era stato parte di un convento dei Carmelitani Scalzi e poi sede di un Orfanotrofio dal 1838 fino al 1978, dopo di che fu sede del quartiere (quando questi in città erano 11), della Guardia medica, alloggio provvisorio per sfrattati, sede di varie Associazioni e del famosissimo Laboratorio teatrale di Luca Ronconi.
Dopo questo periodo culturalmente stimolante dagli inizi degli anni Ottanta lo spazio era stato occupato da gruppi che afferivano all’esperienza dei “centri sociali”.
Non mi aspettavo di vedere ciò che vidi. Ne parlerò nel prossimo post.

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“Carlo Monni – Balenando in burrasca” a cura di Pilade Cantini – Edizioni Clichy Collana “Sorbonne” 2016

http://www.maddaluno.eu/?p=7049

Lo scorso 28 dicembre pubblicando il post di cui sopra riporto lo shortlink scrivevo “…tratterò di un altro libro di Pilade Cantini dedicato al Monni, nel ricordare i quattro anni dalla sua scomparsa e i due esatti da quella del Casaglieri…” ed eccomi a voi con questo nuovo post, come promesso.

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“Carlo Monni – Balenando in burrasca” a cura di Pilade Cantini – Edizioni Clichy Collana “Sorbonne” 2016

Sarà per il richiamo tipicamente di natura letteraria che ne caratterizza il titolo…ma sarà anche il piacere ed il dolore, il dolore ed il piacere che si accompagna al ricordo di questo nobile personaggio delle campagne campobisentine che ha accompagnato il tempo della mia esperienza negli anni della maturità…sarà per il consiglio che mi è indirettamente pervenuto attraverso un’altra piccola grande stimolante operina che è “Il Manifesto del Partito Comunista in ottava rima” di Pilade Cantini, sarà per questo e tanto altro che non posso esimermi dal dedicare uno spazio a Carlo Monni, utilizzando questo “Balenando in burrasca” che a me sembra proprio la migliore evocazione antropologica e biografica che riesca a rendere a pieno la complessità dell’universo monniano.
Carlo Monni ha avuto la capacità di presentare la “poesia” di grandi autori come Angiolieri, Dante, Campana, Cardarelli, Prévert assumendola come personale espressione della sua naturale irrequietezza ed insieme dolcezza. Il suo essere nel corpo tozzo contadino si elevava nel divenire idealmente angelo per poi precipitare con una quasi inattesa naturalezza in un’edonistica materialità, riportando gli spettatori in quel mondo fatto di passioni veraci ed istintive, mai volgari, rappresentative della forza che la “letteratura” possiede quando si innerva in un contesto popolare.
Ad osservarlo bene, questo artista, non può che farci rammaricare di non averlo visto recitare Shakespeare quando nel 2009 con la regia di Andrea Bruno Savelli portò in scena il “Falstaff” in una libera interpretazione di quei due testi che afferiscono al mondo della crapula e della dissacrazione; sempre con Shakespeare e la sua poesia Monni aveva creato un sodalizio forte, e amava presentarla ai suoi pubblici.
Scorrendo le pagine del libro di Pilade Cantini sentiamo ancora una volta la sua voce, suadente, naturalmente impostata (la sua scuola è stata la strada, i circoli, i teatrini, i locali popolari fumosi come bettole, osterie, i viali delle periferie come Le Cascine) ripetere i versi del Campana

Le vele le vele le vele
Che schioccano e frustano al vento
Che gonfia di vane sequele
Le vele le vele le vele!
Che tesson e tesson: lamento
Volubil che l’onda che ammorza
Ne l’onda volubile smorza…
Ne l’ultimo schianto crudele…
Le vele le vele le vele

o quelli del Cardarelli da cui il Cantini ha tratto ispirazione per il titolo

Non so dove i gabbiani abbiano il nido,
ove trovino pace.
Io son come loro,
in perpetuo volo.
La vita la sfioro
com’essi l’acqua ad acciuffare il cibo.
E come forse anch’essi amo la quiete,
la gran quiete marina,
ma il mio destino è vivere
balenando in burrasca.

o ancora quei versi “eterni” che celebrano il “supremo motore dell’Universo” con il quinto canto dell’Inferno dantesco o con “Questo amore” di Jacques Prévert (il cui cognome Monni pronuncia in modo evidentemente “toscano” con la “t” finale ben nitida) o in quelli corrosivi dell’Angiolieri o quegli altri colti e triviali dell’Aretino, accompagnati da contributi “fai da te” della periferia fiorentina.

Devo anche dire che mi è molto difficile sintetizzare le pagine di questo “Balenando in burrasca” che è in maniera esclusiva un “atto d’amore e d’amicizia” dell’autore verso Carlo Monni, basato essenzialmente sui percorsi comuni nei variegati territori teatrali della Toscana. In un andirivieni tra diversi momenti del passato, Pilade Cantini racconta il suo “incontro” con Carlo Monni ed il suo mondo. Il libretto è corredato di riferimenti biografici essenziali, di una Teatrografia e di una Filmografia.

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Joshua Madalon

ANNIVERSARIO (triste) di straordinaria insolita allegria: FRANCO CASAGLIERI

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ANNIVERSARIO (triste) di straordinaria insolita allegria: CASAGLIERI e MONNI

Sì, certamente la mia esperienza amministrativa in una Circoscrizione che era grande quanto la mia città d’origine è stata entusiasmante e ne sono stato arricchito immensamente. Il lavoro in Circoscrizione è gratuito; solo i Presidenti del Consiglio Circoscrizionale percepivano un compenso che era basato su quello degli Assessori. A tutti gli altri eletti veniva corrisposto un gettone di presenza ad ogni partecipazione in Consiglio o in Commissione. Ma personalmente quel lavoro l’avrei fatto anche gratis ed a pensarci ora lo rifarei ancora di più gratis. In quegli anni ho avuto modo di conoscere tantissima gente di Cultura e di Spettacolo perché mi occupavo di questi temi come Presidente della Commissione Scuola e Cultura. E sin dai primi giorni prima nella sede di via Firenze e poi in quella di via De Gasperi ho lavorato per dare un contributo anche personale (qualcuno ha rilevato nel tempo che fosse “troppo personale”) alla gestione del programma culturale del territorio di mia competenza. Indubbiamente alla fine dei miei due mandati potevo dire di avere costruito dei contenitori che sarebbero andati avanti quasi da soli ma non avevo fatto il conto con il cambiamento di maggioranza che si verificò nel 2009, sia in Circoscrizione che in città.
Fu in quegli anni che ebbi modo di conoscere Franco Casaglieri, che peraltro abitava anche nel territorio circoscrizionale, quando mi fu presentato da Gianfranco Ravenni, che si occupava negli uffici non solo delle mie materie ma che per le questioni culturali ha sempre avuto una grande cura ed attenzione. Franco, non appena lo incontravi metteva in moto quella sua verve straordinaria che oltre a mettere a proprio agio gli interlocutori non ti consentiva di capire se stava a prenderti in giro o faceva sul serio. Io, ad esempio, non l’ho mai capito. Ma alla fin fine non era questo quel che importava: lui arrivava, ti presentava un’idea, la discuteva con te, ti faceva sentire importante perché tu la condividessi , stabiliva con il funzionario il budget, e via! E poi qualche settimana prima ti faceva sapere bene chi sarebbero stati i suoi compagni di viaggio. Franco aveva una capacità di coinvolgimento ampio e con lui vedevi arrivare Carlo Monni, Logli Altamante, Bobo Rondelli e ti poteva capitare che nel pubblico si affacciassero anche Ceccherini, Paci, Ettore il Grezzo, un tale Roberto Benigni e su di lì. Una volta si esibirono al Cantiere e gli abitanti del quartiere vuoi per timidezza vuoi per maleducazione (che a volte si confondono in un tutt’uno) non si decidevano a schierarsi sul davanti del palco e continuavano, mentre il Monni si impegnava con i suoi monologhi un po’ scollacciati inframezzati a canzoni come “L’amore è come l’ellera…”, a rimanere di lato e dietro, mentre davanti c’era un minuscolo drappello di “autorità” e qualche loro amico e parente.
Dopo un quarto d’ora di quella solfa, Monni si rifiutò di continuare la sua esibizione, anche perché nessuno dei “cantierini” ne voleva sapere di mettersi davanti.
In un’altra occasione con la Circoscrizione, affidandoci sempre a Franco, pensammo bene di organizzare un Concerto di Bobo Rondelli nella frazione di Gonfienti. A quell’evento avrebbe partecipato anche Carlo Monni. L’iniziativa era collegata alla festa paesana che si svolgeva in collaborazione con la Parrocchia: nessuno di noi aveva previsto che tra il cantante e la gente per bene, timorata di Dio, religiosa non poteva correre buon sangue. Ed infatti fu un vero disastro con polemiche che durarono alcuni giorni sulla stampa locale.
Di occasioni di incontri con Franco ve ne sono stati tanti anche fuori dai contesti pubblici; l’ultima volta che l’ho visto è stata la presentazione del libro di Maurizio Giardi e Marco Mannori, “Il fratello di Marta” alla Libreria Mondadori a Prato (oggi non c’è più “anche” quella libreria), ma non capii che stava male: era fatto così, scherzava come sempre, ti prendeva (o no?) per il culo. Poi arrivò la notizia della sua morte il 31 dicembre del 2015. Due anni fa, proprio il 2 gennaio, ci furono i funerali nel Duomo. Funerali solenni, anche allegri come lui avrebbe voluto che fossero se vi avesse potuto partecipare da vivo. Solenni anche perché ufficiati da due vescovi, l’emerito Gastone Simoni e quello in carica Franco Agostinelli oltre che dall’esperto di arte e spettacolo don Giuseppe Billi.
Uno dei suoi amici pratesi più cari, un artista dell’ottava rima come Gabriele Ara in quell’occasione ebbe a chiedergli proprio di salutare Carlo Monni non appena lo avesse incrociato lassù nei pascoli del cielo.

Joshua Madalon

In giornata ripubblicherò anche quel che scrissi il 2 gennaio del 2016

http://www.maddaluno.eu/?p=4009