“IL MIO MESTIERE” (Natalia Ginzburg): CHE COSA SIGNIFICA SCRIVERE? Di Federica Nerini

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“IL MIO MESTIERE” (Natalia Ginzburg): CHE COSA SIGNIFICA SCRIVERE?

Di Federica Nerini
“Il mio mestiere è scrivere delle storie, cose inventate o cose che ricordo nella mia vita ma comunque storie, cose dove non c’entra la cultura ma soltanto la memoria e la fantasia. Questo è il mio mestiere e lo farò fino alla morte”, così Natalia Ginzburg definiva il suo duro e adorato lavoro: una ragione in più per vivere. Fin dall’antichità l’uomo ha avuto sempre l’esigenza di scrivere storie, miti, leggende solo per la gioia di ascoltare, di essere qualcun altro, e per esistere in modo diverso. Quindi la “voglia di scrivere” nasce con l’uomo, e “il desiderio” non ci deve di certo meravigliare.
Ma perché alcuni mentre scrivono, si illuminano di luce propria e ci fanno sognare altre vite, vivere in altri mondi e catapultare in altre ere? Bravura innata o potere donato da Dio? Noi nel momento in cui scriviamo aspiriamo al silenzio, alla vita, alla libertà e alla nostra felicità individuale, poiché ci liberiamo da ogni tristezza e melanconia. “Scrivere” è come andare dallo psicoanalista, infatti la Ginzburg afferma: “Quando uno scrive un racconto, deve buttarci dentro tutto il meglio che possiede e che ha visto, tutto il meglio che ha raccolto nella sua vita. E i particolari si consumano, si logorano a portarseli intorno senza servirsene per molto tempo”. Quindi, scriviamo noi stessi: ci allontaniamo e ci avviciniamo lentamente alla nostra persona. Il narrare è un flusso che proviene dall’inconscio e dall’anima dello scrittore; come le onde marine ritornano sempre nello stesso punto del bagnasciuga, anche le parole si accendono quanto più arriviamo a sfiorare l’Io, solo quest’ultimo è padrone delle nostre storie, soltanto lui saprà fin dove arriveremo e la nostra fine. L’unico problema è che il paziente comune racconta la sua vita soltanto allo psicoanalista junghiano di turno, mentre lo scrittore narra la sua “epopea” a tutte le future generazioni, inclusi noi. Per questo, sovente è bello scrivere, ma anche leggere fa la sua parte.
Il mestiere dello scrittore è un vero e proprio lavoro, perché implica uno sforzo intellettuale sovraumano, indi per cui è giocoforza definirlo non un “mestiere”, come lo definiscono in molti, bensì una “fatica” in senso vivo, interno e perturbante. In napoletano “lavoro” si traduce con ‘a fatìca proprio per indicare la sofferenza fisica a cui il lavoratore deve sottostare; ci deve essere il “trabajo”, come dicono gli spagnoli: l’anima si deve staccare dal corpo per la pena, il tormento e la fatica. Il sostantivo partenopeo ci fa capire la vera ragione dell’essere scrittori, la Ginzburg a tal riguardo scrive: “Ho scoperto allora che ci si stanca quando si scrive una cosa sul serio. È un cattivo segno se non ci si stanca […]. Uno, quando scrive una cosa che sia seria, ci casca dentro, ci affoga dentro proprio fino agli occhi”.
La maggior parte degli scrittori sono “artisti” infelici e spiegherò il perché. Possiamo infatti dire che le persone felici non fantasticano mai, lo fanno solo gli insoddisfatti. Ciò che rappresenta il “motore immobile” delle fantasie sono i desideri insoddisfatti, ed ogni singola fantasia è la realizzazione di un desiderio, una correzione della realtà insoddisfacente. I creatori di storie cercano di captare se stessi, la realtà, gli altri, inglobando ogni istanza nell’inconscio, per poi iniziare la produzione enucleata dentro loro stessi; questo è al centro del “meccanicismo artistico”: la volontà, l’insicurezza, l’infelicità, la solitudine e la bramosia della realizzazione. Il godimento del piacere, scaturito dalla fantasia con il soddisfacimento dei desideri inconsci, è alla base del “processo creativo”. Le fantasie sono come quelle molle elicoidali che si danno ai bambini quando sono piccoli, apparentemente sono prive di potenza, ma basta il minimo movimento per trasformare il potenziale in un dinamismo eccelso. Ecco, la creatività è una molla, e come ogni oggetto “nuovo” bisogna saperlo usare e non abusarne. Addomesticare la creatività di ogni artista è come avere a che fare con le belve selvatiche: è un processo arduo ed acuto, infatti non tutti gli artisti sono riusciti a manovrare questa “istanza oscura” e alcuni hanno fatto una brutta fine. Il tema in questione è affrontato non solo nella teoria freudiana, ma è anche contenuto in un saggio di Hanna Segal, psicoanalista britannica chiamato Delirio e creatività artistica: “Ma, come in ogni opera d’arte, il romanzo contiene anche la storia della sua stessa creazione ed esprime i problemi, i conflitti e i dubbi sulla stessa creatività dell’artista. L’angosciosa domanda che l’artista si pone è: Il mio lavoro è una creazione o un delirio?”. La produzione artistica è un vero è proprio delirio secondo la Segal, e noi non dobbiamo certo stupirci, poiché il progetto creativo vive ed è dato dalla catarsi sistematica generata dai ricordi e dalle esperienze dell’io. Si scrive quello che si prova in quel determinato momento, infatti veniamo “posseduti” dalla nostra stessa anima e influenzati dagli eventi accaduti: “Ma l’essere felici o infelici ci porta a scrivere in un modo o in un altro. Quando siamo felici la nostra fantasia ha più forza; quando siamo infelici, agisce allora più vivacemente la nostra memoria. La sofferenza rende la fantasia debole e pigra; essa si muove, ma svogliatamente e con languore, come i deboli moti dei malati […]. Ci è difficile distogliere lo sguardo dalla nostra vita e dalla nostra anima, dalla sete e dall’inquietudine che ci pervade” (Natalia Ginzburg).
Per ogni grande scrittore i momenti in cui scrive sono vissuti con grande intensità, basti pensare a Gustav Flaubert, il quale giunto nel momento di uccidere Madame Bovary, immaginò la sua agonia con tale intensità da sentire il gusto dell’arsenico nella sua bocca fino al punto di vomitare; egli su questo scrive: “perché, bene o male, scrivere – non essere più se stessi, muoversi in un universo di propria creazione – è una cosa deliziosa. Oggi, per esempio sono stato uomo e donna, amante e amata, sono stato a cavallo in un bosco, in un pomeriggio d’autunno, sotto le foglie gialle, ed ero i cavalli, le foglie, il vento, le parole che si dicevano e il sole rosso che faceva socchiudere le loro palpebre pesanti d’amore”. È un mestiere che si nutre di cose orribili, ma anche di cose bellissime.
Chi scrive è figlio del silenzio. Esso è essenziale per narrare. I personaggi dei romanzi classici da noi conosciuti parlano per ingannare il silenzio. Proust per tutto il tempo della “Recherche” è stato in una stanza imbottita da pareti di sughero, quasi in preda ad una crisi di isteria; Franz Kafka detestava ogni minimo bisbiglio, colpo di tosse, l’infinitesimo sussurro, il fruscio delle foglie che si disperde nell’aria, il lieve canto dei passeri solitari; perché qualunque cosa succeda è il suono che distingue la vita dalla morte, ed è il rumore l’archetipo distintivo della vita. “Voleva essere talmente chiuso, sbarrato, tagliato, abbandonato dal mondo: voleva altissimi e impenetrabili muri, come quelli della camera di Gregor Samsa o della cantina dove sognava di scrivere” (Pietro Citati). Del senso di colpa, del senso di inferiorità, del senso del panico, del silenzio, qualcuno cerca in qualche modo di guarire, debellando queste “malattie mortali”. Perché desideriamo così tanto il silenzio? Vivere significa saper “ascoltare” e “sopportare” la nostra cacofonica melodia di vita.
Se studiassimo le regole del “fantasticare”, capiremmo che noi tutti siamo potenzialmente degli scrittori, solo che molti passano la vita senza accorgersene, ed è per questo che esisterà sempre l’infelicità. Ma che cos’è la “fantasia” se non una continuazione di un gioco infantile? Che cosa sta alla base della sfera creativa? I poeti e gli scrittori sono degli eterni bambini: i narratori giocano con i loro trenini e le narratrici con le loro bambole, per sempre, per tutta la vita. Ed io, non smetterò mai di osservarli.

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