18 giugno – INFER(N)I – altri Inferni – non solo Dante – “ENEIDE” di Publio VIRGILIO Marone – 3/a (vedi 6 giugno)

Chi, come me, ha respirato sin dai primi vagiti l’aria sulfurea della Solfatara e ha percorso sentieri flegrei, caldi e bollenti, intorno a quel Lago le cui profondità sembrano essere ignote, l’Averno, non può fare a meno di tralasciare la menzione del Libro VI dell’”Eneide” di Publio Virgilio Marone. Quel luogo, il cui nome transitato dal greco antico  (alfa privativa e ὄρνεον , uccello ) sta ad attestare che su quello specchio d’acqua immoto non possono transitare uccelli senza rischiare di precipitarvi esanimi, mi è stato familiare ed ogni qualvolta faccio ritorno nella mia terra natia non manco di percorrere il suo periplo anche più di una volta. Fino a qualche anno fa era peraltro possibile far visita “guidata”, accompagnati da un anziano signore autoctono che amava farsi ritenere “Caronte”, ad un antro che si inoltrava, attraverso un sentiero, nelle viscere del costone di quelle alture a sud ovest. In realtà quel varco conduceva verso il mare (non va dimenticato che il Lago fu utilizzato sin dai primi anni dell’Impero come rifugio sicuro della flotta romana) ma come tante altre parti del territorio era andato in disuso e poi coperto da frane e vegetazioni.

Ecco il Libro VI di cui riporto alcune parti nelle traduzioni di Luca Canali – primo blocco – e di C. Vivaldi – secondo blocco.

V’era una profonda grotta, immane di vasta apertura; rocciosa, difesa da un nero lago e dalle tenebre dei boschi, sulla quale nessun volatile poteva impunemente dirigere il corso con l’ali; tali esalazioni si levavano  effondendosi dalle oscure fauci alla volta del cielo. [Da ciò i greci chiamarono il luogo con il nome d’Aorno.] Qui dapprima la sacerdotessa collocò quattro giovenchi dalle nere terga e versò vino sulla loro fronte, e strappando dalla sommità del capo setole in mezzo alle corna,  le pose sui fuochi sacri, prima offerta votiva, invocando con forza Ecate, potente nel cielo e nell’Erebo. Altri sottopongono coltelli e raccolgono nelle coppe il tiepido sangue. Enea sacrifica con la spada un’agnella di nero vello alla madre delle Eumenidi  e alla grande sorella, e a te, o Proserpina, una vacca sterile. Poi appresta notturne are al re stigio e pone sulle fiamme interi visceri di tori versando grasso olio sulle fibre ardenti. Ed ecco, alla soglia dei primi raggi del sole,  la terra mugghiò sotto i piedi, i gioghi delle selve cominciarono a tremare, e sembrò che cagne ululassero nell’ombra all’arrivo della dea. «Lontano, state lontano, o profani» grida la veggente, «e allontanatevi da tutto il bosco; e tu intraprendi la via, e strappa la spada dal fodero;  ora necessita coraggio, Enea, e animo fermo.» Disse, ed entrò furente nell’antro aperto; egli con impavidi passi s’affianca alla guida che avanza. Dei, che governate le anime, Ombre silenti, e Caos e Flegetonte, luoghi muti nella vasta notte,  concedetemi di dire quello che udii, e per vostra volontà rivelare le cose sepolte nella profonda terra e nelle tenebre. Andavano oscuri nell’ombra della notte solitaria e per le vuote case di Dite e i vani regni: quale il cammino nelle selve per l’incerta luna,  sotto un’avara luce, se Giove nasconde il cielo nell’ombra, e la nera notte toglie il colore alle cose. Proprio davanti al vestibolo, sull’orlo delle fauci dell’Orco, il Pianto e gli Affanni vendicatori posero il loro covile; vi abitano i pallidi Morbi e la triste Vecchiaia,  la Paura, e la Fame, cattiva consigliera, e la turpe Miseria, terribili forme a vedersi, e la Morte, e il Dolore; poi il Sonno, consanguineo della Morte, e i malvagi Piaceri dell’animo, e sull’opposta soglia la Guerra apportatrice di lutto, e i ferrei talami delle Eumenidi, e la folle Discordia,  intrecciata la chioma viperea di bende cruente. Nel mezzo spande i rami, decrepite braccia, un olmo oscuro, immenso, dove si dice che abitino a torme i Sogni fallaci, e aderiscono sotto ciascuna foglia. Inoltre numerosi prodigi di diverse fiere,  i Centauri s’installano alle porte e le Scille biformi e Briareo dalle cento braccia e la belva di Lerna, e orribilmente stridendo, armata di fiamme, la Chimera, e le Gorgoni e le Arpie, e la forma del fantasma dai tre corpi. Allora Enea, tremante d’improvviso terrore, afferra la spada, e ne oppone la punta ai venienti, e se l’esperta compagna non lo ammonisse che si tratta di vite che volteggiano tenui, incorporee, fantasmi in cavo sembiante, irromperebbe, e invano col ferro squarcerebbe le ombre. Di qui la via che porta alle onde del tartareo Acheronte.  Qui un gorgo torbido di fango in vasta voragine ribolle ed erutta in Cocito tutta la sabbia. Orrendo nocchiero, custodisce queste acque e il fiume Caronte, di squallore terribile, a cui una larga canizie incolta invade il mento, si sbarrano gli occhi di fiamma,  sordido pende dagli omeri annodato il mantello. Egli spinge la barca con una pertica e governa le vele, e trasporta i corpi sullo scafo di colore ferrigno, vegliardo, ma dio di cruda e verde vecchiezza. Qui tutta una folla dispersa si precipitava alle rive,  donne e uomini, i corpi privati della vita di magnanimi eroi, fanciulli e intatte fanciulle, e giovani posti sul rogo davanti agli occhi dei padri: quante nelle selve al primo freddo d’autunno cadono scosse le foglie, o quanti dall’alto mare  uccelli s’addensano in terra, se la fredda stagione li mette in fuga oltremare e li spinge nelle regioni assolate. Stavano eretti pregando di compiere per primi il traghetto e tendevano le mani per il desiderio dell’altra sponda. Ma lo spietato barcaiolo accoglie questi o quelli,  gli altri sospinge lontano e scaccia dalla spiaggia.

….segue secondo blocco Libro VI “Eneide”