EVOLUZIONI METANARRATIVE – PICCERE’ – una variazione – come da una “storia” narrata dalla mia gente si produce un “racconto”

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EVOLUZIONI METANARRATIVE – PICCERE’ – una variazione – come da una “storia” narrata dalla mia gente si produce un “racconto”

La città, quella mattina, si era risvegliata con i soliti rumori, soliti per chi la vive e vi si è abituato. Sotto la casa di Adelaide e ……. dove la sera prima era arrivata, Piccerè cominciò a sentire strani e prolungati progressivamente prolungati rumori che venivano da lontano, si avvicinavano si allontanavano ma poi riprendevano e poi si mescolavano ad altri che provenivano da altre direzioni; così almeno pareva a Piccerè, che non ne aveva mai sentiti di così fastidiosi fino a quel mattino. A casa sua era la natura a tenerle compagnia nei giorni di vento che scendeva forte dalle alture o proveniva dal mare lontano e squassava il fogliame degli alberi di gelso o le querce che circondavano il fosso che separava la proprietà della sua famiglia da quella di compare Sauro; erano i galli che già alle prime luci intonavano il loro rituale risveglio o le mucche che attendevano le cure giornaliere; erano le voci degli “uomini” che si occupavano di preparare le prime attività sorseggiando tazzoni di caffelatte mentre finivano di vestirsi; le donne, le sorelle più grandi, avevano il compito di preparare in silenzio una prima colazione veloce. A Piccerè non toccavano questi lavori mattutini ed ascoltava in silenzio poltrendo ancora una buona mezzora nelle lenzuola ruvide di tela grezza. A casa sua…fino alla mattina prima.
Ora era a Prato, da sua cugina Adelaide; era “come” fuggita” dalla sua famiglia, una fuga non proprio autorizzata dal “padre padrone” che l’aveva addirittura minacciata di non volerla più vedere, tanta sarebbe stata la sua vergogna se fosse partita e che, da vigliacco qual era, non si era nemmeno presentato quella mattina a salutare la nipote e la figlia minore, che per qualche giorno – questi erano gli accordi – si sarebbe trattenuta in Toscana a cercare lavoro. Piccerè non si era pentita, perlomeno non ancora, anche se la sera prima al suo arrivo in quella casa nuova, per quelle strade nuove, affollate di gente ma anonime e del tutto sconosciute, si era lasciata prendere dalla paura e dallo sconforto e la tristezza le aveva riempito il cuore. Era però qualcosa di irrazionale, forse solo un timore naturale, avrebbe potuto dirlo “esistenziale”, verso il suo futuro. Di casa sua avrebbe, solo poi, provato nostalgia profonda per gli odori ed i sapori. Quella mattina si era risvegliata e, per un certo languorino allo stomaco, si era ricordata che la sera prima non aveva nemmeno cenato tanta era stata la stanchezza e l’emozione del lungo viaggio dalla Sicilia, durato un’intera giornata.
Non era abituata a tanto lusso, o perlomeno così le parve quando dopo aver disceso le scale interne del terratetto entrò in una cucina ampia e luminosa con grandi vetrages e vi trovò una tavola apparecchiata con ogni bendidio a sua disposizione; i due “monelli” di bambini con i quali aveva avuto contrasti durante il viaggio erano già compostamente seduti a sorseggiare del buon latte solo lievemente macchiato con della cioccolata. Sembravano molto lontanamente somiglianti a quelli che avevano imperversato nei giorni precedenti facendo dannare un po’ tutti; sembravano dei “piccoli lord”. Piccerè non era abituata e per questo motivo non si sedette nemmeno. Prese dal tavolo senza sedersi una tazza di latte e due biscotti e si mise in un angolo di fronte alla grande finestra alle spalle dell’acquaio e lì bevve in pochi sorsi il latte e mangiò quei primi due biscotti, che poi seppe erano tipici prodotti di quella città.

…CONTINUA…

Prato anni 50

“ARDESIA group” e INCANDESCENTE una compilation di primissimo livello

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“ARDESIA group” e INCANDESCENTE una compilation di primissimo livello

Una voce chiara, melodicamente legata al testo; una voce che proprio per la sua innata caratteristica jazz non avrebbe bisogno di altro accompagnamento, una voce piena, calda, corposa. E’ quella di Stefania Tarantino. L’avevo apprezzata anche in tal senso già durante la presentazione del prof. Aldo Masullo nel pomeriggio del 24 aprile a Pozzuoli nel Palazzo “Migliaresi” durante la prima giornata della seconda Edizione del Festival delle Idee Politiche. Come anticipavo l’altro ieri, la filosofa napoletana che ha organizzato insieme a Iaia De Marco e Giovanna Buonanno quegli eventi mi ha fatto dono di un cd, “Incandescente”, del suo gruppo, Ardesia, nel quale svolge il ruolo di leader (sua è la “voce” come dicevamo, ma sue sono le musiche dei 10 brani e le parole di 6 fra essi). Alcuni brani sono direttamente collegati a poetesse come Emily Dickinson (“The grass so little” è il secondo titolo della raccolta, mentre “I held a Jewel” è il numero 9) o ispirati a Virginia Woolf, “Le tre ghinee” (“Incandescente” è il terzo titolo) o influenzati dal pensiero di una filosofa politica come Hannah Arendt (“Secret love” è il brano numero 8 e le parole sono di Maria Letizia Pelosi, che ha studiato in particolare l’approccio giovanile arendtiano ad Agostino). L’ultimo brano, il decimo, “Vai pure”, è liberamente ispirato dalla lettura del testo omonimo di Carla Lonzi, critica d’arte, esponente di Rivolta Femminile, gruppo storico del femminismo italiano. Gli altri brani, il primo (“Le ombre”), il terzo (“Incandescente” che dà il titolo alla raccolta), il quarto (“Ad un’amica”) ed il settimo (“Oscuramenti”) sono produzioni assolute – parole e musica – di Stefania Tarantino. Tutta questa Cultura non inficia minimamente la freschezza del prodotto che è davvero affascinante e stimolante per tutti coloro che volessero andare oltre quelle che sono le piacevoli sonorità di voci e strumenti che accompagnano le performances del gruppo “Ardesia” al quale fa riferimento, oltre alla Tarantino, Maria Letizia Pelosi alla chitarra che interviene anche in voce (elegante e coinvolgente anch’essa) in quattro brani e con l’armonica in “Respira”, quinto brano della lista; al basso ed alla tromba, Ciro Riccardi; al violino, Antonino Talamo; alla chitarra elettrica in due brani, “Oscuramenti” e “Secret love”, Giuseppe Fontanella. Il progetto è in tutta evidenza “un tentativo di mettere in musica la sensibilità “differente” dell’universo femminile”. Parte di queste musiche fanno parte anche del bellissimo documentario di Nadia Pizzuti “Amica nostra Angela” dedicato ad Angela Putino, straordinaria ed indelebile figura di filosofa femminista scomparsa prematuramente nel 2007. Già all’avvio del filmato si odono le note di “The grass so little” ed è la voce di Stefania, calda corposa e suadente allo stesso tempo, che legge alcune riflessioni di Angela Putino. Stefania ha avuto modo di partecipare negli ultimi mesi di vita della Putino alla creazione della rivista on-line «Adateoriafemminista», nella quale erano state coinvolte altre donne e uomini di diverse generazioni.
Con questo mio post volevo evidenziare come, in questo deserto delle anime che abbiamo frequentato occupandoci esclusivamente o quasi di “politica” , esistano storie straordinarie e così piene di incommensurabile bellezza e ricchezza così forti ed impellenti da farmi avvertire il dovere di contribuire a valorizzare, riconoscendo i miei limiti che mi hanno condizionato emarginandomi in una personale particolare “ignoranza”. Grazie, Stefania ed un saluto cordialissimo da Prato. In bocca al lupo per i futuri “successi” non solo quelli musicali!

ORFANI – orfani sì – siamo orfani! ma battaglieri

ORFANI – orfani sì – siamo orfani! ma battaglieri

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Orfani. Orfani, sì. Siamo orfani, il giorno della Festa dei lavoratori ci sentiamo orfani. Sbandati. Sbandati, sì. Senza bussola, proprio oggi che è il 1° Maggio. Maledetto colui e maledetti coloro che festeggiano il nostro lutto ed il nostro disorientamento e che la maledizione ricada su loro e sui loro eredi. Non varrà il loro pentimento quando riusciranno tardivamente a comprendere gli errori, anche perché porteranno su di loro la responsabilità degli errori da noi denunciati e da loro sottovalutati addirittura per personali spesso meschine convenienze, l’alternativa alle quali si chiama idiozia e dabbenaggine. Orfani noi, dunque! Di una guida e di compagni che non abbiano obiettivi personali, che non si lascino abbagliare dal “posto al sole” provvisoriamente conquistato e, per mantenere il quale, siano disponibili a compromessi di bassa lega ammantati da retoriche coerenze; orfani anche di un progetto “alternativo” che non tema di scontrarsi in questi momenti difficili con il “neocentrismo” vincente semplicemente orientato al mantenimento delle differenze sociali che rendono le persone sempre più “schiave” della necessità, pronte a piegare la testa pur di ottenere una “briciola” per saziarsi. Non ci piacciono i silenzi ed i tatticismi che non esplichino strategie comprensibili; occorre forza, coraggio, chiarezza. Consideriamo insostenibile questa situazione, dalle forme kafkiane. Vogliamo anche ricordare che quello che rompe deve pagare, e può tenere l’oggetto per sè. I vecchi proprietari ne costruiranno uno nuovo. Ecco, volevo ricordare la storia di Dicearchia. “Nel 531 a.C. approdarono presso le coste della Campania (Campi Flegrei) alcuni profughi di Samo, sfuggiti alla tirannide di Policrate (“tiranno” non aveva un’accezione soltanto negativa, anche se egli tendeva, per ottenere i risultati che si era prefisso, di annullare i livelli minimi di democrazia), e fondarono, con il consenso di Cuma, la città di Dicearchia, cioè del giusto governo.” E, quindi, non è un “caso” che, di fronte alla deriva demagogica e populista, autoritaria ed antidemocratica, qualcuno abbia voluto richiamarsi a quella vicenda.
Quando ci si richiama al nostro “abbandono” non ci si allunga verso la “rassegnazione”; ci fanno “senso” coloro che ancora si sperticano a tessere lodi per l’Infante, sordi ed increduli alle “panzane” quotidiane innumerevoli e progressivamente ingombranti come macerie. Vogliamo essere signorili nel dire che ci fanno “senso”; in effetti la nostra sensazione è di disgusto, di vomitevole disgusto. E per oggi forse basta. Domani ci aspettano altri spettacoli inverecondi. E noi ci prepariamo.

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” PICCERE’ ” – PARTE 2 E PARTE 3 –

Parte 2

Il paese era piccolo e tutti conoscevano tutti; Piccerè era piccolina di statura così come il nomignolo con cui la chiamavano, anche quando aveva raggiunto l’età di 16 anni ed era ormai guardata dai giovani – quei pochi rozzi e brutti che circolavano ancora, anche perché negli anni sessanta la strada più facile per tanti era stata quella del “continente”, Torino, Milano, la Germania – non era interessata a loro. Anche se come tutti gli altri della famiglia non aveva frequentato nemmeno un giorno di scuola Picceré era vivacissima per la furbizia e non si lasciava lusingare dalle sollecitazioni delle altre sorelle più grandi che, essendo già sposate, la spingevano a scegliere la sua strada presentandole di tanto in tanto qualche “rozzo” pretendente. Un’estate, era il 1963, era tornata per un grave lutto nella famiglia del marito una sua cugina, Adelaide, che viveva a Prato. Adelaide era una bella giovane donna, più elegante che bella ma davvero faceva la sua figura in mezzo a quelle contadine ed a quei buzzurri. Vennero con una bella auto portando con loro i due figli che non avevano nemmeno conosciuto il nonno, che era morto in quei giorni. Adelaide parlava di quella città, Prato, decantandone l’operosità ed anche la facilità di trovare lavoro, diceva “meglio che a Torino o a Milano o in Francia, in Belgio e Germania”. “Certo, la “ggente ce chiamme marrocchine ma se lavori t’apprezza anche perché so’ ggeluse del modo con cui stammo assieme ridendo e facendo un po’ casino; lloro so’ fridde, ma a nnuje che ce n’ mporta”. Piccerè beveva a gorgoglioni tutto quello che la cugina raccontava e già sognava la sua libertà.
Ce ne volle d’impegno da parte di Adelaide e Stefano, suo marito, per convincere Gesualdo a farla partire per Prato a fine agosto. Ma il padre stimava moltissimo quel suo nipote acquisito e conosceva sin dalla nascita anche Adelaide, donna pia e coraggiosa; e poi a Prato aveva anche un altro fratello più grande di lui che aveva fatto il meccanico e quindi per Picceré ci sarebbe stata possibilità di controllo da parte della famiglia e se voleva lui stesso poteva salire a riprendersela, anche se si stava facendo vecchio e gli acciacchi lo bloccavano nelle ossa. Le sorelle erano gelose di questa avventura; sotto sotto appunto la invidiavano ma la loro vita era stata segnata; la prima, Filomena, aveva già una bambina di cinque mesi, la seconda. Concetta, era in attesa da sette mesi ed ogni tanto minacciava di sgravare anzitempo, non avendo mai smesso di lavorare nei campi.
Con la valigia di cartone chiusa tutta intorno con lo spago sistemata sul portapacchi Piccerè salì sulla Fiat 1500 celeste sedendosi come una signora dietro con i due diavoletti; e qualche lacrimuccia la versò dopo aver abbracciato la mamma e il padre e salutato sorelle e fratelli.
A Prato, lo aveva promesso, avrebbe fatto la brava e si sarebbe subito cercato un lavoro; Adelaide aveva detto a tutti che sarebbe stata ospite da loro fin quanto avesse voluto e semmai – nel pensiero di Adelaide questa idea le balenava – avrebbe potuto accudire alle due “pesti” di casa. In più le aveva anche fatto capire che a due passi da casa loro, una delle sue cugine aveva da poco aperto un bar e forse avrebbe già lì trovato lavoro.

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Il viaggio fu lungo; i bambini erano davvero monelli e Adelaide dovette rimproverarli più e più volte. Era la prima volta ed erano tante le prime volte una dietro l’ altre per Picceré, che non solo non aveva mai visto il mare ma dovette anche imbarcarsi entrando nella pancia di un palazzo enorme tutto fatto di ferro che portava tante automobili dall’altra parte del mare verso quello che chiamavano “il continente” e poi una volta usciti fuori da quel buco l’auto continuò a percorrere strade piccole e grandi e lei guardava dal finestrino, e gli occhi saettavano su tutto e bevevano le novità che le andavano incontro. Si fermarono in un posto con aiuole verdi e fiorite verso il primo pomeriggio e Adelaide da un cesto che aveva nel portabagagli aveva tirato fuori una mezza forma di caciocavallo ed un mezzo prosciutto e con due pagnotte aveva cominciato, seduta in un angolo ed appoggiato il tutto su una ampia tovaglia, ad affettare formaggio, prosciutto e pane ed aveva distribuito la merenda al marito, alle “pesti” ed a Piccerè, che andava trasformando l’entusiasmo in tristezza. Poi ai ragazzi ed alla giovane aveva dato una bottiglia di acqua perché la bevessero a canna ed a Stefano – ed un po’ anche per sé – una fiaschetta di vino rubizzo delle loro fertili campagne siciliane. Arrivarono a Prato che era buio; i ragazzi si erano stancati di saltellare e provocarsi a vicenda e si erano addormentati. Piccerè saettava con gli occhi da ogni parte anche se non capiva quasi niente, tanti erano i paesaggi che scorrevano; e sul far della sera poi tutto era indistinto difficile e la ragazza era davvero confusa, ancora più triste: forse era il buio della notte che incombeva. Adelaide lo capì e quando si fermarono che erano sotto casa chiese al marito di provvedere lui ai ragazzi e a scaricare la macchina e presa sottobraccio la giovane la volle accompagnare amorevolmente in casa mostrandole la sua cameretta. Era troppo stanca e lasciatala lì a mettere a posto le sue poche cose ché dopo qualche minuto sarebbe poi salita a prenderla per una cena frettolosa giusto per non andare a dormire digiuni, Adelaide la ritrovò che già dormiva alla grande, le spense la luce, le rimboccò le lenzuola e le diede un bacio sulla fronte.

“No, per il momento no! Abbiamo già trovato” La cugina di Adelaide, quella che aveva aperto il bar in via Bologna a pochi passi da casa, purtroppo da qualche giorno aveva assunto una ragazza di Barberino che era passata a cercar lavoro. “Però” – dopo aver dato uno sguardo a Piccerè, disse – “c’è l’ingegnere Puccini che proprio stamattina, facendo come al solito colazione, mi ha chiesto se conoscevo qualche brava ragazza da mandargli a servizio. Se vuoi” aggiunse ad Adelaide” domattina quando ritorna ti mando a chiamare”.
Andò così che due giorni dopo di prima mattina Adelaide accompagnò Piccerè in casa Puccini (erano fra l’altro imparentati, per un ramo lontano però, con il maestro di Torre del Lago) in Santa Trinita. La vecchia governante di famiglia – Eugenio Puccini era un famoso ingegnere tessile – non era più in grado di seguire le loro varie vicissitudini e si era ritirata, sostenuta da una buona pensione, da dei nipoti che ne avevano bisogno per i loro figli piccoli. La moglie dell’ingegnere per gli studi svolti avrebbe potuto insegnare ma aveva preferito fare la “signora” e si impegnava “a tempo pieno” soprattutto in una delle società cristiane caritatevoli. Caritatevole senz’altro fuori casa, abbastanza despota e piena di superbia in casa.

…continua…