12 aprile – CANI GATTI E FIGLI – il nostro primo figlio era”peloso” – parte 4 (per la 3 vedi 2 febbraio)

CANI GATTI E FIGLI – il nostro primo figlio era”peloso”

Parte 4

La proprietaria della mansarda che aveva seguito con curiosità le nostre manovre da una sua finestrella mi portò un sacchetto con un residuo di lettiera che aveva per un suo gatto che da qualche mese aveva perso anche la sua “settima” vita ed era stato sepolto nel giardino sotto casa.  Era a tutta evidenza un modo per solidarizzare con noi e condividere la gioia di questo “lieto evento”, inatteso.

Mary ritornò molto presto.  Intanto mi ero accorto che si trattava di una gattina. Lo dissi subito a Mary, al suo ritorno.  Aveva raccolto  i consigli di una delle farmaciste, della quale conosceva la passione per i gatti, e così era passata  a comprare del latte “senza lattosio”  da riscaldare, come le era stato suggerito, solo leggermente per renderlo più simile possibile a quello della “mamma-gatta”.

Procedemmo subito alle operazioni di “ristoro” ed il micetto,  sfibrato dal lungo digiuno, si accoccolò famelico e dolcissimamente paziente tra il mio busto ed il braccio, chiudendo gli occhi e suggendo con immenso piacere il latte, stringendo con le zampine anteriori il piccolo biberon. Dopo un po’, beato, sembrò addormentarsi continuando a suggere le ultime goccioline. Era un piccolo esserino che entrava a far parte della “famigliola”; mi accorsi che, una volta smesso di nutrirsi, aveva un grande piacere a rimanere accoccolato con la punta del mio indice in bocca, come un bambino con il suo ciuccio. Era uno spettacolo guardarlo, con una grande immensa tenerezza.

Poi, però, si pensò che avrebbe dovuto abituarsi alla sua vita autonoma e lo depositammo nello scatolo apprestato a cuccia. Probabilmente i panni non erano tiepidi come le mie braccia e scattò fuori miagolando. Seguiva me, ma non avrei mai potuto sostituire “mamma gatta” e facendoci forza né io né Mary lo riprendemmo “in collo”. Allestimmo uno spazio riservato alla “lettiera”, pronti ad interpretare i “bisogni” per evitare che utilizzasse qualsiasi altro angolo della mansarda. Quando si avvertiva che era il momento, lo si prendeva per la collottola, così come fanno le “mamme-gatte” e lo si adagiava nel giaciglio appositamente preparato all’uopo. Occorreva fare attenzione, perché di norma le prime volte cercava di sfuggire; ma a quel punto lo si riagguantava e lo si riportava dove avrebbe dovuto “imparare” a svolgere quelle pratiche. Dopo un paio di tentativi, il meccanismo educativo andò in funzione con regolarità.

La sera, però, quando per noi “umani” era ora di andare a dormire, non c’era verso di indurre il micetto, che avevamo chiamato “Pussypussy”, a rimanere nella sua “cuccia”. Di norma noi chiudevamo la porta della camera da letto non tanto per “privacy” quanto per il clima freddo tipico di quella realtà (c’è un detto: “Se vuoi soffrir le pene dell’inferno vai a Trento d’estate e a Feltre di inverno”), ed il riscaldamento era centralizzato e funzionava fino all’incirca alle otto di sera, quando i proprietari che lo regolavano andavano a letto. Ovviamente i nostri ritmi erano un po’ diversi ma ci adattavamo.

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