19 aprile – INFER(N)I – altri Inferni – non solo Dante – canto XI dell’Odissea (nella traduzione di Ettore Romagnoli) – 1 (per intro vedi 24 marzo)

Dopo una breve introduzione si avvia una ricognizione intorno ai “viaggi” nell’aldilà – sono materiali che avrei già da tempo voluto utilizzare per una messa in scena di tipo didattico nello stile che ho amato proporre negli anni passati – in questo post troviamo i versi dell'”Odissea” nei quali Omero riporta una parte del racconto che Ulisse fa ad Alcinoo, dopo che Demodoco, narrando alcune fasi della guerra di Troia nelle quali l’eroe acheo è protagonista, provoca in lui molta commozione.

Riporto in questo blocco l’inizio della “narrazione” di Ulisse – nel prossimo post aggiungerò un’altra tranche con un altro elenco di “anime”.

Nella traduzione di Ettore Romagnoli insigne grecista italiano (1871-1938) il canto XI dell’Odissea descrive il viaggio di Ulisse dalla dimora di Circe all’Averno

Ora, poiché tornati noi fummo alla nave ed al mare,
prima di tutto, la nave spingemmo nel mare divino,
l’albero con le vele drizzammo sul negro naviglio,
prendemmo e v’imbarcammo le greggi, e noi stessi salimmo,
pieni di cruccio il cuore, versando gran copia di pianto.
E per noi, dietro la nave cerulea prora, una brezza
mandò propizia, buona compagna, ch’empieva la vela.
Circe dai riccioli belli, la diva possente canora.
E noi, gli attrezzi tutti deposti lunghessa la nave,
sedemmo; ché a guidarla pensavano il vento e il pilota.
Tese restar tutto il giorno le vele, e la nave correva.
S’immerse il soie, tutte le vie si coprirono d’ombra,
giunse la nave presso d’Ocèano ai gorghi profondi.
Qui sorge la città, il popolo è qui dei Cimmèri,
che vivon sempre avvolti di nebbie, di nubi; e coi raggi
mai non li guarda il sole fulgente che illumina il mondo,
né quando il volo al cielo cosparso di stelle dirige,
né quando poi dal cielo si volge di nuovo alla terra;
ma ruinosa notte si stende sui tristi mortali.

Al lido, quivi giunti, spingemmo dapprima la nave;
quindi, sbarcate le greggi, lunghesso l’Ocèano, noi stessi,
per giungere alla terra che detta avea Circe, movemmo.
Qui Periniède ed Euriloco tenner le vittime ferme;
ed io, di presso al fianco fuor tratta l’aguzza mia spada,
scavai, lunga d’un braccio da un lato e dall’altro, la fossa,
e a tutti i morti quivi d’attorno libami profusi,
di latte e miele il primo, di vino soave il secondo,
il terzo d’acqua; e sopra cospersi la bianca farina,
e alle care ombre dei morti promisi con molte preghiere
che, giunto ad Itaca, avrei sgozzata una vacca infeconda,
l’ottima, e sopra il rogo gittato ogni sorta di beni;
ed a Tiresia avrei, per lui solo, sgozzato un agnello
negro di pelo, quello che fosse fra i greggi il migliore.
Poi che con voti e scongiuri cosí le progenie dei morti
ebbi pregate, presi le vittime, e sopra la fossa
tagliai le gole ad esse. Scorrea negro e tumido il sangue.
E l’anime dei morti su corser da l’Èrebo in fretta,
vergini, fanciulletti, vegliardi fiaccati dal duolo,
tenere giovinette dal cuore inesperto di pene;
e molti dalla punta di bronzee lance trafitti
uomini in guerra spenti, con l’arme bagnate di sangue,
chi di qua, chi di là, si addensavano intorno alla fossa,
con alti urli:
si ch’io di bianco terrore mi pinsi.
Ai miei compagni allora mi volsi, diei l’ordine ad essi
che le giacenti greggi sgozzasser col lucido bronzo,
le scoiasser, le ardessero, preci volgessero al Nume
Ade possente, e a Persèfone, ignara di teneri sensi.
Ed io poi, sguainata dal fianco l’aguzza mia spada.

stetti lí, né lasciai che le fatue parvenze dei morti
s’avvicinassero al sangue, finché non giungesse Tiresia.
     Prima l’anima giunse d’Elpènore, il nostro compagno
che seppellito ancora non era soltessa la terra,
ma nella casa di Circe lasciato avevamo il suo corpo
non seppellito, non pianto, perché ci premeva altra cura.
Piansi, vedendolo qui, pietà ne sentii nel mio cuore:
e a lui cosí mi volsi, dicendogli alate parole:
«Come sei giunto, Elpènore, in questa caligine fosca?
Prima tu a piedi sei giunto, che io sopra il negro naviglio»
     Cosí gli dissi; ed egli, piangendo, cosí mi rispose:
«Ulisse, o di Laerte divino scaltrissimo figlio,
tristo un dèmone m’ha rovinato, e la forza del vino. \
Addormentato m‘ ero in casa di Circe; e sul punto
di venir via, scordai da qual parte scendeva la scala:
mossi dal lato opposto, piombai giú dal tetto; ed il collo
mi si stroncò nelle vertebre, e scese lo spirito all’Ade.
Ora, per i tuoi cari, che sono lontani, io ti prego,
per la tua sposa, pel padre che t’ha nutricato piccino,
e per Telemaco, solo lasciato da te nella reggia,
giacché so che, partendo di qui, dalle case d’Averno,
dirigerai di nuovo la prora per l’isola eèa.
Quivi ti prego che tu di me ti ricordi, o signore,
sí che, partendo, senza sepolcro non m’abbia a lasciare,
senza compianto: per me non ti segua lo sdegno dei Numi.
Bensi con l’armi, quante n’ho indosso, mi brucia sul rogo,
e un tumulo m’innalza sul lido spumoso del mare,
che giunga anche ai venturi notizia di questo infelice.,
Questo per me devi compiere. E il remo sul tumulo infiggi,
ond’io fra i miei compagni remigar solevo da vivo».

     Cosí mi disse; ed io con queste parole risposi:
«Tutto per te, sventurato, farò, compierò quanto chiedi ’.
Cosí noi due stavamo, con queste dogliose parole,
io da una parte, distesa tenendo sul sangue la spada,
e del compagno l’ombra, con molte parole, dall’altra.
E della madre mia defunta qui l’anima apparve,
d’Anticlea, la figliuola d’Aulòlico cuore gagliardo,
che lasciai viva quando per Ilio la sacra salpai.
E lagrime versai, vedendola, e in cuore m’afflissi;
ma non permisi, per quanto gran cruccio mi fosse, che al sangue
s’avvicinasse, prima d’aver consultato Tiresia.
Ed ecco, l’alma giunse del vate di Tebe, Tiresia,
con l’aureo scettro in pugno, che me riconobbe, e mi disse:
«O di Laerte figlio divino, scaltrissimo Ulisse,
or come mai, sventurato, lasciata la luce del sole,
giunto sei qui, per vedere la trista contrada dei morti?
Scòstati, via, dalla fossa, tien lungi l’aguzza tua spada,
ch’io beva il sangue, e poi ti volga veridici detti».
     Cosí disse. Io, scostata la spada dai chiovi d’argento,
nella guaina di nuovo la spinsi. E il veridico vate,
bevuto il negro sangue, cosí mosse il labbro a parlare:
«Celebre Ulisse, il ritorno piú dolce del miele tu cerchi.
Ma te lo renderà difficile un Dio: ché oblioso
l’Enosigèo non credo, che accolse rancore nell’alma
contro di te, furente, perché gli accecasti suo figlio.
Eppure, anche cosí tornerete, sebben fra le ambasce,
se le tue brame e le brame frenare saprai dei compagni,
allor che primamente dal mare color di viola
all’isola Trinacria coi solidi legni tu approdi.
Qui troverete bovi che pascono, e pecore grasse,

greggi del Sole, che tutto dall’alto contempla, e tutto ode.
Se tu le lasci illese, se pensi soltanto al ritorno,
sia pur fra mille crucci, tornare potrete alla patria.
Ma se le offendi, invece, predico rovina al tuo legno,
ai tuoi compagni. E se pure tu giunga a salvarti, ben tardi,
tutti perduti i tuoi compagni, su nave straniera,
doglioso tornerai, troverai nella casa il malanno:
uomini troverai che protervi ti vorano i beni,
che la tua sposa per sé vagheggiano, e le offrono doni.
Ma tu farai, tornando, giustizia di lor tracotanza.
E quando avrai purgata cosí la tua casa dai Proci,
o con l’inganno, o a viso aperto, col brando affilato,
allora dà di piglio a un agile remo, e viaggia,
sinché tu giunga a genti che il pelago mai non han visto,
né cibo mangian mai commisto con grani di sale,
che navi mai vedute non hanno dai fianchi robusti,
né maneggevoli remi, che sono come ali ai navigli.
E questo segno ti do, ben chiaro, che tu non lo scordi.
Quando, imbattendosi in te, un altro che pure viaggi,
un ventilabro ti dica che rechi sull’omero saldo,
allora in terra tu conficca il tuo solido remo,
ed a Nettuno immola prescelte vittime: un toro,
un ariete e un verro, petulco signore di scrofe.
Alla tua patria quivi ritorna; ed ai Numi immortali
ch’ànno nell’ampio Olimpo dimora, offri sacre ecatombe,
a tutti quanti, per ordine. E infine, dal mare una morte
placida a te verrà, che soavemente t’uccida,
fiaccato già da mite vecchiezza. E felici dattorno
popoli a te saranno. Vero è tutto ciò ch’io ti dico
».

…INFER(N)I —- Odissea – 1