EPIFANIE – racconti – Pasolini e Bach a Bergamo alta – seconda ed ultima parte

563537_329377607150335_456347080_n

Con gli studenti quella sera poi avviò a trattare la difficile fase delle “Guerre di successione”; alcuni però vollero sapere di Pier Paolo Pasolini e così fu che si avviò una discussione fra chi lo etichettava come un immorale frocio e chi lo riconosceva come poeta assoluto. Fulvio parlò della sua spietata lucida analisi della società condotta su quotidiani come “Il Corriere della Sera” e “Il Tempo” e sul settimanale “Il Mondo” e su riviste vicine al Partito Comunista come “Vie Nuove” e “Rinascita”. Ne sottolineò gli aspetti analitici e critici ed in particolare toccò il tema del “genocidio culturale” e della metamorfosi antropologica in atto. Parlò del suo cinema ed in modo attento alle prime prove, “Accattone” e “Mamma Roma”, che senza alcun dubbio erano collegabili ai romanzi più famosi come “Una vita violenta” e “Ragazzi di vita”. Accadeva così, nel corso serale: erano gli studenti, quelli più attenti (qualcuno sonnecchiava), a proporre la linea della serata. E Fulvio si adattava.
Era un novembre climaticamente accettabile e Fulvio ne aveva utilizzati alcuni fine settimana, quando le scuole erano chiuse, per visitare altre parti di Bergamo. Bergamo alta (la città antica medievale romanica) è un piccolo gioiello inatteso per chi viaggia soltanto nella “bassa”, dove si sono invece sviluppate le caratteristiche moderne economiche ed industriali. Vi si accede attraverso un servizio di funicolare (a piedi è molto più faticoso arrivarci) e la percezione storica del mondo bergamasco cambia totalmente. Quel 4 novembre di festa Fulvio prese la Funicolare e attraverso stradine strette giunse nella splendida Piazza Vecchia, un vero e proprio capolavoro nel suo insieme. Vi fu girato “Il cavaliere del sogno” film dedicato alla vita di un grande bergamasco, Donizetti. Vi si trovano tutti insieme il Palazzo del Podestà, il Palazzo della Ragione e la Torre medievale del Comune. Andando avanti si trovano poi la Cappella Colleoni che celebra altro illustre figlio bergamasco, il Duomo romanico e la Basilica di Santa Maria Maggiore. Fulvio notò affisse delle locandine in alcuni dei locali che annunciavano per la sera del 4 novembre un grande Concerto all’interno del Duomo. Un’ orchestra tedesca con un Coro internazionale avrebbe proposto la “Passione secondo Matteo” di Bach. Non poteva mancare. Fulvio risalì di nuovo a Bergamo alta quella sera; non aveva mai sentito la “Passione” per intero ma ne aveva ascoltato brani proprio nei film di Pasolini e gli sembrò un “segno” straordinario quella concomitanza di eventi. Il Duomo alle sei e mezza di quel pomeriggio era gremito all’inverosimile; vi erano delle transenne che limitavano il passaggio fra il pubblico “comune” e le autorità cui era stata riservata la parte più ravvicinata all’orchestra su comode poltrone. Su una di queste vi era anche il Vescovo, figura possente per altezza e larghezza. Fulvio non si scoraggiò e superando il varco si posizionò in forma asiatica intrecciando le gambe. Non vi era alcun servizio d’ordine e l’esempio fu seguito da altri giovani, incoraggiando anche qualche meno giovane a fare la stessa scelta.
Alle sette in punto di quel pomeriggio gli orchestrali, circa 25 elementi, fecero il loro ingresso davanti al pubblico, sistemarono i loro spartiti sui leggii ed avviarono la loro azione per provare gli accordi. Dopo circa cinque minuti entrò il Coro formato da circa 20 elementi maschili e femminili e poi entrarono e si posero a sedere davanti ai lati dell’Orchestra tre donne e tre uomini (2 soprani, 1 contralto, 1 tenore e due bassi). Subito dopo, accompagnato dagli applausi del pubblico, fece il suo ingresso il Direttore e dopo due inchini al pubblico ed agli orchestrali che furono invitati ad alzarsi, salì sul suo podio e dopo aver impartito alcune indicazioni avviò il Concerto. L’avvio, musicale e corale, è immediatamente solenne e Fulvio, colpito da un brivido di emozione e di piacere, venne trasportato su una “nuvola” lieve ed eterea; voci angeliche pietose accompagnano l’Uomo con la sua Croce verso il suo estremo sacrificio. A tanta ieraticità non resse la stanchezza del Vescovo che scrollava la testa sonnacchioso. Al Corale ampio n.10 (“Son io che dovrei espiare Legato mani e piedi Dannato all’inferno Gli insulti e le catene E i tuoi patimenti Tutto ha meritato l’anima mia”) l’Alto prelato crollò in un sonno profondo ed in esso permase cullato dal Corale n.15 e da quello più tranquillo del n.17. A nulla servì il Tenore ed il Coro dell’Aria n.20 né la Corale n.20 che mantennero invece Fulvio ad un’altezza costante sulla sua “nuvola”, dalla quale fu costretto a scendere dopo il Corale conclusivo della prima parte, causa breve intervallo. Anche il Vescovo si scosse, disturbato da un addetto che gli chiese se aveva bisogno di bere qualcosa. Il concerto riprese e nulla cambiò: il vescovo riprese anch’egli il suo sonnellino e Fulvio il suo viaggio estatico. Non aveva mai sentito nulla di simile nei suoi giovani anni; il mondo gli sembrò più accettabile e comprese anche quanto la morte di Pasolini avesse proiettato quel grande nell’eternità, accomunandola a quella del Cristo. Quella sera uscì dal Duomo sorretto da due angeli che lo mantenevano al di sopra di tutte le altre persone accompagnato dalle note della “Passione” e dai suoi cantori.

fine

Bach

Bach 2

VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 parte 5

 

563537_329377607150335_456347080_n

 

I GIORNI – parte 5

Sul lavandino la formichetta andava su e giù. Basta poco per mandarla nell’acqua. Una volta bagnata appesantita non sa più andare avanti la formica. Allora un dito basta per sollevarla all’asciutto. E’ uno spettacolo. Dapprima sembra che ormai sia spacciata. Poi la vedi trascicarsi. Poi come se facesse toletta. Si strofina tutte le zampette con una delle due antenne usandone  una dopo l’altra, piegandosi. Dopo un quarto d’ora e dopo alcune prove malriuscite di partirsene, la vedi andar via, sicura e veloce.

Quasi tabulare, Ventotene. Con un porticciolo che sarà la croce, in inverno, dei suoi marinai. Articolata variamente. Vicina, imponente, Santo Stefano. Uno scoglio poco meno che perfettamente circolare. Prima di avvistar queste due sagome, in lontananza, un orizzonte completo.

Cielo e mare, la nave. Su un punto più alto, guardando in avanti, mai in giù, puoi anche pensare d’essere solo. Portare lo sguardo al cielo ed ivi lasciarlo, mentre le nuvole di fumo corrono lontano, all’indietro, e vanno man mano a morire.

Le profondità marine. A pensarci. Morire sul mare, inabissarsi. Gira la testa sul mare! Niente ad est, nulla a sud, niente ad ovest nè a nord. Un orizzonte completo.

Cielo e mare, la nave. Illusione di essere soli e di essere gli unici. Scoppia la bomba. Soli a sopravvivere. Il mondo, nostro, tutto,  nostro, tutto nostro. E approdare in una terra per assistere alla creazione nuova. Impossibile.

Dove andremo? La voce di chi guarda la poesia che si allontana, l’arida terra che è in noi, la vita che diventa un inferno di lordure, e tutto quel che noi speravamo e che non viene ancora, tutto quel che noi abbiamo odiato ed oggi prevale, la voce di chi si sente perduto: “Dio mio, Dio mio… ovunque il guardo io giro…”

E non ricordo più.

“Dove sei?” Poco prima l’avevo visto nel cerchio perfetto dell’orizzonte, dimenticando tutto il resto, guardando in su verso il cielo, dimenticando tutto il resto.

A Ventotene, nell’insenatura, quattro, cinque imbarcazioni con turisti. Sulla ripa, una tendopoli minuta. Confluire di motorette sulla stretta banchina. I viaggiatori oro ora sbarcati, salire su un sentiero sull’altura di fronte, dove tanta gente in attesa aveva scrutato i nuovi arrivati, alla ricerca di un volto amico. Lo sbarco delle merci, le cassette con frutta e verdure di mano in mano, mentre un signore, in bilico come gli altri sulla barca, non faceva altro che indicare il punto più adatto per poggiare la cassetta. E sembrava, da un momento all’altro dovesse rovesciarsi la barca.

A prua, solo. Il mare, lontano. Il mare, vicino. Giù.

Nei pomeriggi estivi come questi ella veniva a cercarmi. Nella mia piccola stanza, su di un letto montato all’occorrenza, io riposavo senza dormire nell’attesa. Ogni volta, come un gioco di bambini, fingevo di dormire. Ella veniva pian piano: con le palpebre appena socchiuse ne vedevo l’ombra avvicinarsi. Si sedeva accanto a me e mi toccava con un dito, leggera, per non farmi svegliare di colpo. Mostravo un falso stupore e fingevo di volermi riaddormentare.

Tutto il gioco consisteva solo in questo non volermi svegliare del tutto. Allora lei, vedendo me di nuovo assopito, per niente sconfitta, mi toccava poi le labbra con un dito, mi accarezzava, leziosa, con la mano. Fin quando, del tutto ormai con evidenza sveglio, non le afferravo la mano e gliela mordevo senza però farle male. Ella si piegava ai piedi del letto, poggiava la sua testa, come a voler riposare sulle mie ginocchia.

La mia mano, ella la mordeva, ma non avvertivo dolore. Era un gioco. Mi piaceva carezzarle i capelli o tenerla per mano e son pentito di averla baciata, qualche volta. Restavamo così, ore ed ore, a guardarci negli occhi, lei a fare complimenti fuori luogo, io a tentarla inutilmente, ma il gioco era sempre lo stesso, più bello di altri.

fine parte 5

 

 

mare aperto