VIAGGIATORI – GIUSEPPE E MARIA (la sceneggiatura) – parte 5

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VIAGGIATORI – GIUSEPPE E MARIA (la sceneggiatura) – parte 5

Panoramica sulla Piazza Duomo che si restringe su un dettaglio (il Pulpito di Donatello) e da questo poi si allarga nuovamente a tutta la Piazza mentre in sottofondo mescolato alle voci c’è il terzo movimento della sinfonia “Dal Nuovo Mondo” di Dvorak. Fra gli altri Giuseppe e Maria passeggiano mano nella mano; li si segue da lontano. C’è molta gente che si muove; gruppi di uomini sono fermi a chiacchierare sotto la statua del Mazzoni e davanti alla scalinata del Duomo. Voce off. Maria: “Ecco una Piazza che vive, erano anni che non ne vedevo una così. Anche al nostro paese il terremoto aveva cambiato le abitudini della gente e le piazze non erano più centri di vita.
Piano Totale dei due che si avvicinano ad un gruppo. Piano americano del Gruppo. Giuseppe chiede: “Scusate, se vi disturbo. Ci hanno detto che in questa Piazza avremmo trovato il signor Lenzi Vittorio, sapreste indicarcelo?”. Piano Totale su altro gruppo. Primo Piano uomo che chiama, indicando altro uomo che in raccordo si gira e con mimica si stacca dall’altro gruppo e si muove verso Giuseppe e Maria: “Eccolo…là. (gridando alla pratese) Vittorio…Vittorio! Guarda un po’ questi signori, chiedono di te.”
I tre discutono. Si sente voce “off” di Giuseppe: “Dovevamo cercar casa. Dall’albergo ci avevano indirizzato al signor Vittorio ed ora che l’avevamo trovato, ecco le prime difficoltà: case in affitto manco a parlarne, oppure costi proibitivi; diversamente, ci disse Vittorio, avremmo trovato tutto quel che cercavamo quanto all’acquisto. Noi gli dicemmo che non avevamo fretta e che saremmo tornati dopo qualche mese ma che ci tenesse informati”.
Si sentono le voci dei personaggi mentre si stringono le mani e si salutano: “Arrivederci” – “Arrivederci e grazie”.
Voce off di Giuseppe: “Ci scambiammo gli indirizzi e proseguimmo”.
Campo intero sui due che escono da Piazza Duomo verso via Mazzoni. Macchina che li segue di spalle poi breve ellisse con dissolvenza in chiusura ed in apertura su Piazza del Comune. I due vi entrano. Voce off di Maria su ripresa della Piazza con Marco Datini, Palazzo Comunale, Loggia e Palazzo Pretorio; gente che va e che viene con molti diversi colori; alcuni sono in bicicletta: “Era quel che si poteva ben definire una tipica piazza comunale, un concentrato di espressioni della civiltà democratica dal Duecento ai nostri giorni con un porticato sotto il quale continuava a svolgersi la vita nelle giornate piovose. La gente ci colpì nei movimenti e nei colori, soprattutto gli abiti dei giovani…Sembrava una sfilata coreografica allestita da uno dei “mostri sacri” dell’alta moda. Eh già, ma Enrico Coveri è proprio di Prato!”.
In un angolo c’è una “troupe” che sta facendo riprese; c’è lo stesso uomo, che dal modo in cui si muove è il regista, che Giuseppe e Maria avevano intravisto nel giardino della Stazione centrale. La scena riprende due ragazzi seduti sugli scalini del Palazzo Pretorio che appaiono osservare alcuni movimenti davanti a loro.
Campo Intero su Giuseppe e Maria che proseguono verso via Cairoli. Controcampo da via Cairoli sui due che si muovono verso Piazza Buonamici. Gente seduta ai lati della Piazza come ad attendere un evento. Poi dalle scale del Giardino Buonamici, da destra e da sinistra giovani modelle e modelli scendono al ritmo di una musica New Age.
Voce off di Maria: “Tutti quei colori ci affascinarono, ci ipnotizzarono per alcuni minuti: sedemmo anche noi ad un tavolino ed osservammo incantati ed attenti quella tavolozza caleidoscopica.
Dissolvenza in chiusura.
VIAGGIATORI – GIUSEPPE E MARIA (la sceneggiatura) – fine parte 5
…continua…

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VIAGGIATORI – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 9

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PROCIDA L’ETERNO RITORNO PARTE 9

“Te veco bbuono, Rafilù” disse donna Rosa “se vede che ll’aria d’’o mare te fa bbene”. “Sì, mammà; veramente nun ce manca niente e po i’ stongo int’’a cambusa e mangio tutte chello che vvoglio; aggia assaggià pe’ tramente cucino; faccio ‘a pacchia e i superiore me lassano fà”. Le sorelle, soprattutto Maria lo prese in giro, ricordando uno dei giudizi sulla sua pagella dove, a parte la condotta, l’unica valutazione “Lodevole” era stata quella per “Lavori donneschi e manuali”. Risero tutti, anche Lello, ma non fece mai parola, però, della nausea che lo prendeva quando ai profumi dei cibi si mescolava il puzzo della nafta. E tra una cucchiaiata e l’altra, parlando del più e del meno, della scarsa voglia di andare a scuola del fratellino e gli impegni di lavoro del padre e dell’altro fratello e le storielle d’amorazzi veri o fittizi delle due sorelle, parlò dei suoi amici, di Umberto che tutti a Pozzuoli conoscevano ma anche di Mimì, che lo aveva invitato a Procida, in occasione del Venerdì Santo. Chiese ai suoi di poter ricambiare l’invito già per sabato a pranzo; avrebbero dovuto però mangiare velocemente qualcosa e presto, a mezzogiorno, nulla dunque di impegnativo (anche se, lo avesse voluto, non sarebbe stato facile) perché sarebbero partiti nel primissimo pomeriggio per raggiungere Civitavecchia. Lello aveva visto, anche lui, alcune foto della famiglia di Mimì ed era curioso di conoscerla; in particolare aveva notato la più piccola, Tina; ma di ciò non aveva mai parlato né con Mimì né quel giorno ai suoi.
Il resto della giornata Lello lo trascorse con il padre nei Cantieri navali per vedere il lavoro che stava portando avanti.

E venerdì mattina nella casa di campagna di Procida tutti erano svegli, come di consuetudine, molto presto. Il Venerdì Santo, poi! Tina non aveva dormito pensando a come si sarebbe agghindata. Il giorno prima si era lavata i capelli e se li era composti con un nastrino che glieli teneva dietro lasciando aperto l’ovale del viso; aveva scelto un vestitino a fiorellini molto adatto alla primavera ed un paio di scarpe basse comode. Arrossendo aveva chiesto a Mimì, che quel giorno aveva per obbligo indossato la divisa di ordinanza dei “Marò”, se lo poteva accompagnare al Porto; Mimì acconsentì ma a patto che fossero d’accordo Vincenzo e Rachele. Di lui si fidavano perché lo conoscevano come ragazzo assennato, anche lui un gran lavoratore nella pesca oltre che braccio essenziale per la campagna, e non ebbero nulla in contrario a che Tina andasse insieme a lui. Si fidavano anche dei suoi giudizi e, se Lello era suo amico, pensavano dovesse di sicuro essere una brava persona. Le sorelle mugugnarono sotto sotto, erano fatte così; in effetti mantenevano un comportamento molto austero e mal sopportavano la puledrina a volte un tantino ribelle. Erano fatte così, rappresentando forme arcaiche in tempi che avrebbero portato forti cambiamenti. E Tina era alla fin fine la più vezzeggiata e si permetteva spesso di trasgredire.
Alle otto, più o meno alle otto arrivò il vaporetto. Mimì e Tina, orgogliosa di essere accompagnata da un fratello così elegante, alto, robusto e bello, erano sulla banchina.

PROCIDA L’ETERNO RITORNO fine parte 9

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VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 13

 

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I GIORNI – parte 13

Per raggiungere il nuovo albergo sbagliammo strada e percorremmo una strada sotto una loggia coperta alla base di un dirupo. Un signore ci indicò, accompagnandoci poi, la buona strada. Era nuovissimo, l’albergo, o forse riadattato. Una signorina bruna, dagli occhi neri, ci accolse sorridente ed espansiva. A suo fratello, in tutta evidenza il direttore dell’albergo, consegnammo le nostre tessere. La stanza n. 1 era bella, accogliente e luminosa. In silenzio: “Anche la signorina”. Sorrisi tra me e me. Non ricordo bene cosa mi venne alla memoria in quel momento, ma sorrisi. La finestra della stanza dava proprio su di una strada secondaria interna. Ogni tanto sentivamo una voce, un rumore di passi ritmati con gli zoccoli marinari. Dialetti di paesi, diversissimi tra lor. Lingue straniere talvolta nettamente incomprensibili. Quindici minuti di riposo soltanto dopo aver di nuovo sbagagliato. Lasciammo la chiave sul banco, salutando. La signorina era sparita. Alla ricerca di un ristorante anche se era abbastanza tardi per il pranzo. La passeggiata di Ponza e i suoi localini, semichiusi nel caldo della controra. Ristoranti zeppi, senza un solo posto libero. Ora del pomeriggio imprecisata. In un angolo della strada principale alcuni tavoli liberi di una dozzinale trattoria. L’appetito doveva essere molto, se la scostumatezza e la gaglioffaggine del trattore non ci indusse a scegliere un nuovo ristorante. Avremmo però dovuto aspettare che si liberasse qualche posto. Certo, era proprio screanzato. I suoi modi non prevedevano nemmeno lontanamente la consueta ipocrita leziosità dei ristoratori. Ricordo di averne conosciuto anche altri così. In un’altra isola a me più familiare. Persone così dovrebbero avere una lezione di normale cortesie e bisognerebbe revocar loro la licenza. Dimostrava di non aver letto o nemmeno orecchiato alcun trattato di belle maniere, né di aver studiato per diventar quel che era. Egli aveva a sua volta però impartito lezioni di vita al suo garzone, che era altrettanto ruvido e rozzo; il giovanotto aveva in tutta evidenza tratto buon profitto. Sia nel parlare che nell’agire non faceva che imitare il suo padrone, a volte superandolo. Chi non doveva proprio stargli dietro, essere una discola ed un’ingrata era una donna di mezza età, forse la moglie, forse una sorella, che aveva solo un aspetto un po’ cattivo, burbero ma utilizzava buone e gentili maniere. Mostrava talvolta di volersi adeguare forse per reazione ma in fondo restava quella che era. Trovammo un tavolo libero, all’ombra. Qualche attimo dopo si aggregarono altri avventori, si sedettero ad un tavolo accanto al nostro, all’ombra anch’esso. Lui, un signore sulla quarantina, dalla corporatura grossa, forse con una gran voglia di restare scapolo o forse con moglie e figli abbandonati su qualche spiaggia lontana; dall’occhio, che non spiega niente, di chi ha sonno e vuol rimanere sveglio, con una stanchezza nelle ossa da troppe faticose veglie. La sua voce calda e melliflua cercava di convincere. Le sue labbra, per tutto il tempo che lo guardai, non si atteggiarono mai a sorriso. Lo immaginai al posto di lavoro, quel porco. Non sembrava vivere altro che per il piacere. Lei, donna biondastra più che castana, dalle carni grasse più che robuste, labbra sensuali, gote leggermente arrossate, occhi chiaramente insignificanti, naso grosso e fronte spaziosa, frignava capricciosa per chissà cosa. Neanche un sorriso. Lacrime trattenute a forza. Parlava nervosa, balbettante e semi-singhiozzante. Parole calde, untuose, quelle di lui. Incomprensibili, di lei. Intervalli silenziosi di tregua. Poi davanti ad un piatto di spaghetti alla marinara sembrò acquietarsi, la bambina. Con il suo giocattolo ormai rotto. Io non ho voglia di un amore così. Preferisco essere solo, ho meno paura della solitudine.

 

I GIORNI . fine parte 13 …. continua….

 

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