VIAGGIATORI – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – PARTE 7

VIAGGIATORI – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – PARTE 7

A tavola erano in otto, quella sera. Mancava uno dei giovani maschi, Michele, che già da tempo aveva deciso di andare a vivere da solo; ritornava di tanto in tanto più per necessità che per vero senso di appartenenza familiare, ed era un po’ un isolato, forse misogino, inadatto a vivere in una comunità con la prevalenza femminile. C’era aria di festa; Domenico era tornato per un breve congedo dal servizio militare. Come si conveniva ad un lupo di mare era stato arruolato nella Regia Marina, Corpo Reale Equipaggi Marittimi, prima sul’incrociatore Garibaldi fino al marzo del 1938 e poi sul cacciatorpediniere Ostro. Erano vicine le festività pasquali e si respirava un’aria di primavera inoltrata; non aveva molti giorni ma avrebbe partecipato alle funzioni della Settimana Santa, quelle del giovedì, il 14 aprile e del venerdì, di certo; ma doveva far ritorno la mattina del sabato per consentire ad altri suoi compagni di poter andare in congedo. Era fortunato perché a Procida quella settimana ha un forte connotato religioso innervato nella realtà sociale: tutti, in modi diversi, vi partecipano.
“Comme te va, Mimì, te veco ‘nu poco dimagrito” disse Vincenzo, il capofamiglia con un paio di baffoni curati alla Umberto I e seduto in cima al tavolo largo e capiente. “Nun te fanno mangià comme a casa; ma chi è che te cucina?”. Mimì sorrise e, tra una cucchiaiata di minestra di fagioli bolliti nel tradizionale fiasco e poi conditi con patate, erbe, cipolle e cotica, di quella conservata in gelatina con una parte di carne di maiale, mise le mani nel giubbotto che aveva appoggiato dietro la spalliera della sedia e ne tirò fuori un portafoglio dal quale estrasse alcune foto. “Ecco, qui simmo in libera uscita, a Taranto” mostrando la sua divisa ancor più elegante nel suo portamento di giovane poco più che ventenne “e comme vedite c’è tanta ggente, tanta bella ggente, tante gguaglione ca ce guardano e, insomma, ce stà da fà” fece con orgoglio maschile. “Chest’ata fotografia è a bordo, eccolo qua, chillo ca ce fa da mangià” e mostrò un giovane dal sorriso aperto “ è nu guaglione de Puzzule, Lello; pur’isso è in congedo e forse, ci aggio ditto io, me vene pure a truvà, venerdì, e po’ ce ne iammo assieme”. La famiglia di Mimì era molto ospitale ed accolse con piacere l’annuncio della visita di chi, alla fine, si curava del benessere del loro congiunto. “E che cucina?” chiese la maggiore delle sorelle, forse curiosa forse invidiosa di un ruolo che aveva da tempo assunto con perizia. “Di tutto; però, basta che sape fà nu bbuono raù, ‘na bbona frittura, nu poco ‘e carne e quacche vvota ‘na bella ‘nsalata e a nnuje ce basta. Nun te preoccupà, Agnesì; a tte nisciuno te batte”. La madre Rachele gioiva solo al vederlo, quel figliolo, seduto in mezzo a loro, e non parlava. Mimì parlava con il padre e con le quattro sorelle scambiava poche parole, tanto erano esse riservate e di conseguenza silenziose. La più piccola era intimidita da quel fratellone grande e grosso ma aveva gettato lo sguardo, mantenendosi lontana, su quella foto nella quale c’era il “cuciniere” di bordo

FINE PARTE 7

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VIAGGIATORI – GIUSEPPE E MARIA – racconto con sceneggiatura – parte 4

 

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VIAGGIATORI – GIUSEPPE E MARIA – racconto con sceneggiatura – PARTE 4

Voce fuori campo di Giuseppe sulle immagini del giardino: “Dove eravamo? Ci sembrava di essere arrivati in un paradiso! Non ricordo mai di essermi sentito così pacato e tranquillo. Quel luogo mi piaceva…”

Voce fuori campo di Maria mentre le immagini girano intorno alla fontana centrale seguendo lo sguardo di Maria in soggettiva: “Dove poteva essere la città industriale? mi  pareva di essere arrivata in aperta campagna. La città ci aveva ben accolti, smorzando l’angoscia per l’incerto futuro e rinnovando l’entusiasmo per la scelta che si stava compiendo”.

In un angolo non visto dai due viaggiatori un piccolo set allestito con due giovani seduti su una panchina.

Giuseppe e Maria proseguono verso il Ponte alla Vittoria. Controcampo Giuseppe e Maria superano il Ponte.

Panoramica su Piazza San Marco con il “Buco di Moore”.

Voce fuori campo di Giuseppe: “Ci siamo chiesti subito cosa fosse…quella pietra fatta ad arco che troneggiava sul prato di fronte a noi.”

Primo Piano dei due in raccordo con la scultura. Senza parlare lui la indica a lui. Poi PP dei due che fermano un signore di passaggio, gli chiedono (evidentemente) cosa mai sia. Ricevono con mimica inequivocabile  una risposta negativa.   Voce fuori campo di Maria: “Non eravamo gli unici a chiedercelo, anche fra i pratesi c’era chi non sapeva ancora cosa volesse significare”.   Dissolvenza in chiusura  e buio e sotto voce di Maria “Lo sapemmo solo più tardi, arrivando in albergo”. Suono di un campanello – dissolvenza in apertura e particolare del dito di Giuseppe sul pulsante.

Dissolvenza in chiusura. Musica in sottofondo “new age”. Dissolvenza in apertura. Reception di modesto albergo. Al desk non c’è nessuno. Campo totale su ambiente. Giuseppe si avvicina al desk mentre Maria si accomoda in una poltrona al suo lato con i bagagli. Giuseppe prepara intanto i documenti. Un signore di mezza età, chiaramente l’albergatore, si avvicina: “Buongiorno. I signori hanno prenotato?” “Giuseppe: “Sì, sotto il nome di Chiaromonte. Una matrimoniale”. L’albergatore osserva – siamo in Campo Totale – il registro. Poi Piano Americano dei due (albergatore e Giuseppe) alternato e Primo Piano sull’albergatore alternato con Primo Piano di Giuseppe dalle spalle dell’albergatore che preleva i documenti: “E’ la 205. Spero possa essere di vostro gradimento. E’ tranquilla e panoramica. Al quarto piano. C’è l’ascensore. In fondo a  sinistra quando uscite. Benvenuti a Prato, signori Chiaromonte.”

Entrano nell’ascensore in Campo Totale con albergatore e i due. Ellissi in soggettiva. Siamo di fronte alla 205. La porta si apre (non si vede chi la apre) e nel semibuio la ripresa avanza fino all’apertura delle tendine e della finestra su un panorama cittadino con abitazioni tutte più basse e campanili. La stanza si illumina e la ripresa la rappresenta. Voce fuori campo di Maria a partire dall’apertura della finestra, dal panorama e dalla camera: “Luminosa ed accogliente, saremmo stati bene, anche se non si trattava di una vera e propria vacanza. Avevamo il desiderio di trasferirci in un luogo che fosse più aperto, più ricco di stimoli, più colto; avevamo insieme pensato alla Toscana, a Firenze o ad un centro che fosse tranquillo ma anche pieno di attività artistiche e culturali, un luogo dove anche i rapporti umani e civili fossero altrettanto positivi aperti e proiettati verso il nuovo.”

Giuseppe intanto ha aperto le valigie ed ha ordinato gli oggetti personali suoi sul comò e sul comodino. Maria conclude il suo pensiero “off” e fa lo stesso mentre Giuseppe si avvicina alla finestra. La ripresa va a cogliere in soggettiva altri luoghi dall’alto della visuale: “La mia attività in provincia di Belluno era stata entusiasmante. Accanto alla professione di insegnante avevo speso più di una stagione nella pratica politica, sindacale e nell’organizzazione culturale di tipo integrale. Avevo avuto dei buoni risultati, soddisfatto sì ma volevo comunque cambiare aria, mi affascinava questa piccola possibile nuova avventura, questa nuova stagione ed avevo deciso che con quel poco d’esperienza avrei dedicato la mia attività all’arte, alla cultura, tralasciando la deludente pratica politica e sindacale.”

GIUSEPPE E MARIA parte 4 – continua

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VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 11

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VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 – parte 11

Sorridere, sorridere sempre. Ma quando non ne ho voglia, non lo faccio, pur se inconsciamente. Eppure quando finisce la carica, “Chi ha sbagliato?”. E non si sa o non si vuol rispondere.
Vorrei dire: “Ti voglio bene”. Ma ho paura dei tuoi turbamenti.
“Ti voglio bene” e tu nel silenzio della mia fantasia: “Anch’io”. Poi niente.
E guardarci negli occhi, fermi, così, per un po’ senza parlare. I tuoi occhi dolci e buoni che non hanno bisogno di parole, che non hanno bisogno di parole. I miei occhi che cercano un affetto e non sanno disperare. I nostri occhi che si guardano e non sappiamo nemmeno cosa dire, ora che il tempo è passato e non può ritornare.
“Ti voglio bene”. “Anch’io”, la risposta che attendo “Anch’io te ne voglio”. E poi niente. Separarsi per sempre. “Io di qua, tu di là. Poche parole nel vento: “Ti voglio bene”. “Anch’io”.
“Non c’è più uno spazio di mare veramente pulito”
Esagerando a mo’ di rottura. Assentì senza ulteriori commenti.
La ragazza aveva capelli più corti dei miei, un viso veloce, come quello di un bambino vispo e intelligente. Si manteneva appena a galla. Più in là aveva le sue compagne ma solo lei sembrava disposta a chiacchierare. Il suo dialetto la tradì romana ed anche lei, checchè io tentassi di tenere nascosto le mie inflessioni dialettali, scoprì la mia origine napoletana.
Domande retoriche ed uguali risposte dall’una e dall’altra parte. Il mare aveva in superficie qualche pezzettino di pece galleggiante.
Il mio amico, in silenzio, mi teneva d’occhio ai bordi della riva. Seppi molto di loro, ma poi ci salutammo e basta. Avrei voluto dar loro un appuntamento per il pomeriggio, ma non ebbi la forza necessaria di scegliere il momento, né d’altronde l’ebbe il mio amico. Andarono via.
Noi continuammo a marciare sulla sabbia e sui ciottoli. Fingemmo di niente, notando anche che le tre amiche della sera prima, quelle del locale, erano lì sedute e ci guardavano sorridendo con malcelata malignità.
Alcuni ragazzi tornarono dal mare in completo da sub ma senza alcuna preda. Due ragazzotte, dai capelli castani, volgevano le loro tette alla sabbia per prendere il sole in maniera più omogenea. Finsero di turbarsi al nostro sguardo interessato. Almeno così evidentemente lo considerarono. Due ragazzi, di certo loro amici, le invitarono ad una nuotata, tirandole ora per le mani ora per i piedi. Via nel mare con un tuffo per pulirsi della sabbia.
Le giornate di pioggia trascorse nella soffitta erano magnifiche. Mi piaceva mettermi comodo. Spesso veniva a trovarmi, la mia amica. Anche a lei piaceva stare comoda. Non nascondeva mai niente, senza inibizioni. Nelle giornate di pioggia, doccia al naturale sul terrazzo. Ci drogavamo d’ozono respirandolo insieme. Al vento ed al sole ci asciugavamo, l’aria trasmetteva la sua voce stridula e la sua risata.
Mi sembra talvolta di sentirla, la sua risata, tra il fruscio degli alberi scossi dal vento, mentre sono solo nella mia soffitta.
Finito, tutto. Non so nemmeno dove sia, adesso. In quale soffitta.
I GIORNI 1972 – fine parte 11

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