VIAGGIATORI – una serie di racconti – PROCIDA L’ETERNO RITORNO – parte 3

3_camping_punta_serra_procida_11

PROCIDA l’ETERNO RITORNO – parte 3

Arrivavo sotto gli alberi con l’immenso desiderio di scalarli e sentivo sapevo di non farcela di non averlo mai saputo fare, mentre gli altri veloci raggiungevano i posti più alti ed io, graffiandomi, rimanevo a guardarli impotente (una foto del tempo delle elementari me lo ricorda impietosamente). Le querce di Procida erano alte e dal tronco largo e nodoso. Sotto queste pinate, sui bordi del promontorio di Serra, le buche dei conigli mi mettevano una strana paura e il ricordo correva a quel mio dito sanguinante inciso dai denti di uni di essi; ed ero minuscolo bambino ancora ingenuo e poco accorto lanciato alla conoscenza del mondo e delle sue piccole insidie. Sin da quel tempo, il cane da caccia “muso storto” mi guardava ringhiando e vaniva la mia coraggiosa intenzione di avvicinarlo e di carezzarlo con segno di amicizia da quel curioso che ero, allora, da quel curioso pettegolo che sono, adesso. La capra dal suo recinto protetto, addossato alle mura di quella casina diroccata in parte, ma del tutto abbandonata e trasformata in piccola stalla, lasciata lì solo a baluardo, con le sue mura forti ed alte, belava sentendoci arrivare, segno che l’ora del pasto e della mungitura delle sue mammelle lattifere era già arrivata. Tra tutte queste attività correvo scappavo dappertutto raccogliendo le ghiande e lanciandole qua e là con il segreto intento di raggiungere il mare, vicino (allora così mi sembrava!) da uno o dall’altro lato della punta, ed avrei voluto vedere nell’acqua, che tuttavia era lontana, i cerchi ingrandirsi concentrici e precisi man mano fin poi a scomparire.
Avevo saputo che laggiù sulla stretta spiaggia del Pozzo Vecchio venivano anche di inverno nelle belle giornate calde perché soleggiate gli innamorati, a cercare un istante di pace, uno scorcio romantico dove ispirarsi, ci venivano anche gli artisti, i fotografi, con i loro pennelli ed i loro colori, con le macchine fotografiche ad eternare momenti ed immagini.
“Dissi a mio cugino che andavo scrivendo qualcosa, niente di molto serio, poesie, racconti. Eravamo là sulle gradinate di casa, le lunghe caratteristiche gradinate procidane mediterranee costruite con il tufo e spalmate di bianca calce; ed io preferivo lungamente star lì seduto, piuttosto che andare al mare, che era per di più a quattro passi da noi; preferivo rimanere con me stesso, da quel chiuso riservato carattere che avevo, piuttosto che scendere alla spiaggia, a contendermi gli sguardi e le risa delle ragazze, a provare gelosia ed insieme invidia, a giocare con rabbia per emergere, farmi notare, ad impormi con aggressività nelle facoltà dove stimavo di eccellere e che spesso erano sottovalutate e derise, a nascondere la costituzione macilenta del mio fisico indossando maglioni poco adatti al caldo estivo, al sole che picchiava sulle sabbie sempre più calde, bollenti. E mio cugino mi offrì un sorriso di commiserazione, comprendendo che andavo rivolgendo dentro me stesso tempeste. Non avevo mai amato soverchio la bellezza, forse perché essa mi trovava sempre impreparato, sprovveduto, timido e chiuso. Avevo imparato che la bellezza era anche simbolo di vanagloria ed ogni volta che incrociavo gli occhi di una ragazza ostentavo una indifferente noia, un superficiale disgusto, una maschia sicurezza, che nascondeva l’immensa quantità di complessi.

fine parte 3

563537_329377607150335_456347080_n

VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 parte 8

PICT0018

I GIORNI 1972 – parte 8

C’è chi non ha genio. Quello ero io. Avevo paura. Una strana paura. Ingiustificato timore di essere scacciato. Come una spia in un paese nemico, un traditore nella patria.
Uno strano complesso di colpa, mia madre. D’inferiorità.
Che ti viene di fronte a muri apparentemente insormontabili, allorquando si entra in un clan già precostituito. L’incomunicabilità con gli altri talvolta per angoscia, talvolta per abitudine di vita.
Seduti là, accanto a loro, il mio amico di faccia, io di spalle su un grosso sofà. La noia dipinta su di me. Volevo scappare, ma il mio amico cercava di attaccare conversazione. Egli voleva, lo disse poi a me, proporre un canto della nostra terra, ma fu inutile.
Rimanere lì ancora, anche per poco, per me era perdita di tempo, anche perché essi avevano lì il loro mondo, le loro donne, i loro amici ed io invece sentivo dentro di me di essere solo, molto solo, molto solo, estraneo.
Non ho mai legato con gruppi così numerosi come quello. Legare. Fingere. Cantare insieme a loro un canto che, io, non sentivo di cantare. Il canto corale, aderenza di ciascun elemento al gruppo.
Ad ascoltare l’inno ti si gela il sangue, senti un brivido, la partecipazione è completa.
L’urlo nella notte mi colpì all’improvviso. Dapprima il terrore fu forte. Poi, trasformatosi in coscienza, dovetti riconoscere che il poveretto doveva soffrire non poco. Paralitico da anni, aveva frequenti attacchi di asma.
Quello che la gente ignorante chiama licantropo o lupo mannaro è solo un povero uomo malato.
Per tanti anni la superstizione e la paura di incontrarlo, restando sveglio di notte al semplice abbaiare di un cane, non avendolo mai incontrato, non avendo mai sentito il suo caratteristico lamento, mi avevano fatto credere ad un personaggio da leggenda, di quelli che comparivano numerosi nei films del terrore. Per strade strette e buie, un minimo rumore mi faceva rabbrividire, ma ora che so non ho da avere paura, ma soltanto pietà.
I cani, nell’isola, dovevano essere molti. Andavano mendicando per le trattorie, strascicandosi quasi, per la loro pinguedine eccessiva, accucciandosi financo al centro della strada a godersi, placidamente assopiti in una calma che io invidiavo, il meraviglioso viavai di gambe.
Chiaia di Luna doveva essere una spiaggia. C’era un cartello che ci indicava la strada.
La luna s’era alzata già di molto e la strada, buia, era riscaldata dai suoi raggi, quel pallore che a me, se son solo, mette angoscia. Ecco perché nelle notti di luna piena talvolta si crede di assistere a visioni che valicano i limiti umani.
Ti aspettai. Tu venisti, come avevi promesso, ma qualche minuto più tardi. Scappasti momentaneamente di casa e, per convincere i tuoi, chiedesti l’aiuto degli “angeli”. Tra gli alberi i raggi della pallida luna sortivano uno strano effetto. Vedevi e non vedevi. Sembrava di essere quasi al buio e la luce non era luce, stancava gli occhi il guardare. A casa ritornasti in silenzio, per vestirti dell’abito buono dei giorni di festa e uscire con noi. Alla festa dimenticai di dirti che t’amavo. Dimenticai, e la colpa fu tua. Lo dimenticai fra le tue calde braccia, mentre tu ti assopivi stanca sulle mie spalle, nei lenti, silenziosi slow, lo dimenticai. E avevo dimenticato, l’avevo voluto, perché sentivo che non c’era più bisogno di dirtelo a voce.
Chiaia di Luna era una spiaggia. Il mio amico c’era stato anche l’ultima volta. Mi guidò.
Avevamo visto nascere la luna piena, quella sera. Ora era già alta.

I GIORNI 8 – continua

ponza_chiaia_di_luna