VIAGGIATORI – I GIORNI 1972 parte 8

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I GIORNI 1972 – parte 8

C’è chi non ha genio. Quello ero io. Avevo paura. Una strana paura. Ingiustificato timore di essere scacciato. Come una spia in un paese nemico, un traditore nella patria.
Uno strano complesso di colpa, mia madre. D’inferiorità.
Che ti viene di fronte a muri apparentemente insormontabili, allorquando si entra in un clan già precostituito. L’incomunicabilità con gli altri talvolta per angoscia, talvolta per abitudine di vita.
Seduti là, accanto a loro, il mio amico di faccia, io di spalle su un grosso sofà. La noia dipinta su di me. Volevo scappare, ma il mio amico cercava di attaccare conversazione. Egli voleva, lo disse poi a me, proporre un canto della nostra terra, ma fu inutile.
Rimanere lì ancora, anche per poco, per me era perdita di tempo, anche perché essi avevano lì il loro mondo, le loro donne, i loro amici ed io invece sentivo dentro di me di essere solo, molto solo, molto solo, estraneo.
Non ho mai legato con gruppi così numerosi come quello. Legare. Fingere. Cantare insieme a loro un canto che, io, non sentivo di cantare. Il canto corale, aderenza di ciascun elemento al gruppo.
Ad ascoltare l’inno ti si gela il sangue, senti un brivido, la partecipazione è completa.
L’urlo nella notte mi colpì all’improvviso. Dapprima il terrore fu forte. Poi, trasformatosi in coscienza, dovetti riconoscere che il poveretto doveva soffrire non poco. Paralitico da anni, aveva frequenti attacchi di asma.
Quello che la gente ignorante chiama licantropo o lupo mannaro è solo un povero uomo malato.
Per tanti anni la superstizione e la paura di incontrarlo, restando sveglio di notte al semplice abbaiare di un cane, non avendolo mai incontrato, non avendo mai sentito il suo caratteristico lamento, mi avevano fatto credere ad un personaggio da leggenda, di quelli che comparivano numerosi nei films del terrore. Per strade strette e buie, un minimo rumore mi faceva rabbrividire, ma ora che so non ho da avere paura, ma soltanto pietà.
I cani, nell’isola, dovevano essere molti. Andavano mendicando per le trattorie, strascicandosi quasi, per la loro pinguedine eccessiva, accucciandosi financo al centro della strada a godersi, placidamente assopiti in una calma che io invidiavo, il meraviglioso viavai di gambe.
Chiaia di Luna doveva essere una spiaggia. C’era un cartello che ci indicava la strada.
La luna s’era alzata già di molto e la strada, buia, era riscaldata dai suoi raggi, quel pallore che a me, se son solo, mette angoscia. Ecco perché nelle notti di luna piena talvolta si crede di assistere a visioni che valicano i limiti umani.
Ti aspettai. Tu venisti, come avevi promesso, ma qualche minuto più tardi. Scappasti momentaneamente di casa e, per convincere i tuoi, chiedesti l’aiuto degli “angeli”. Tra gli alberi i raggi della pallida luna sortivano uno strano effetto. Vedevi e non vedevi. Sembrava di essere quasi al buio e la luce non era luce, stancava gli occhi il guardare. A casa ritornasti in silenzio, per vestirti dell’abito buono dei giorni di festa e uscire con noi. Alla festa dimenticai di dirti che t’amavo. Dimenticai, e la colpa fu tua. Lo dimenticai fra le tue calde braccia, mentre tu ti assopivi stanca sulle mie spalle, nei lenti, silenziosi slow, lo dimenticai. E avevo dimenticato, l’avevo voluto, perché sentivo che non c’era più bisogno di dirtelo a voce.
Chiaia di Luna era una spiaggia. Il mio amico c’era stato anche l’ultima volta. Mi guidò.
Avevamo visto nascere la luna piena, quella sera. Ora era già alta.

I GIORNI 8 – continua

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